Pietre miliari per la ricostruzione del tessuto urbano si possono considerare le testimonianze che, fin dal tardo Medioevo, si vanno coagulando intorno ad alcuni complessi edilizi: molte notizie ad essi relative, spesso posteriori anche di secoli ai fatti riportati, benché fondate su una documentazione precedente, per noi perduta, li collegano ad altre case e consentono perciò sia di individuare una serie di rapporti tra diversi fabbricati, sia di stabilire una continuità nella storia delle abitazioni di Udine. Si riferiscono a pochi edifici pubblici, a conventi, ad alcune costruzioni private, il cui fondo risulta per secoli ben delimitato e censito, come attestano i rotoli che ne registrano affitti e livelli fino a epoca tarda. La posizione particolare di altri edifici, confinanti con i precedenti o situati presso incroci o angoli di vie, insomma in punti ancora oggi localizzabili, permette a volte di inserire anche questi in un antico disegno e di seguirne quindi le vicende soprattutto attraverso i passaggi di proprietà. Ecco perché alcuni atti della pubblica amministrazione e delle corporazioni religiose soppresse, ma soprattutto i rogiti notarili assumono un’importanza primaria nella documentazione relativa all’oggetto della ricerca.
È ovvio, però, che le aree coperte dagli edifici odierni non possono coincidere totalmente con quelle antiche: oggi le case occupano in genere spazi maggiori, si sono dilatate su fondi che prima erano scoperti, hanno invaso vicoli ciechi, cortili, portici, hanno inglobato stalle e aie coperte, qualche volta anche a spese del fondo pubblico. Questa tendenza dei privati a impadronirsi del terreno pubblico si registra già in epoca comunale. Il 28 aprile 1402 Biagio di m. Lazzaro denuncia al consiglio comunale «quod multi auferunt terrenum comunis, occupando cum palatis et muris et concludunt»; quindi insta «ut provideatur super hiis»1.
Nella seconda metà del Settecento il comune raccoglie un intero fascicolo sull’argomento2 con decine di richieste del genere. Queste saranno le ultime, in quanto coll’Ottocento si registrerà un’accentuata inversione di tendenza.
Per contro altri spazi sono stati conquistati a spese dei privati. Ad esclusione del Giardino grande, il famoso giardino del patriarca, le più grandi piazze del centro cittadino si aprono su rovine di antichi palazzi, due dei quali demoliti in odio ai loro proprietari. La prima in ordine di tempo, la “Rovina”, sulla quale nessuno dei Savorgnan, che tuttavia continuarono a possederla sino alla fine del Settecento, osò ricostruire alcunché al posto del celebre palazzo di Tristano, nell’Ottocento si trasformò inevitabilmente in un mercato. Da sorte analoga nasce il fondo devoluto al fisco dopo l’incendio del palazzo della Torre nel 1717: ad eccezione della chiesa di S. Barbara, esso rimane a disposizione del pubblico udinese, ospitando varie baracche per rivenditori, un teatro di legno per rappresentazioni popolari e solo tardi nel secolo scorso viene selciato per il mercato del grano. Più civile e tranquilla è la storia della attuale piazza Libertà, che si ampliò per volere degli Udinesi a spese di alcune case che sorgevano sull’attuale terrapieno. La realizzazione dell’opera, avviata nel 1550 con l’incarico affidato a tre deputati di «veder diligentemente il loco e considerar la qualità e la grandezza et la forma che potria riuscire detta piazza et poi contrattar coi patroni delle case che fusse necessario di rovinare et con tutti coloro che havessero interesse»3 si attua attraverso le note tappe.
Per le case citate da documenti antichi, ma non individuabili su un fondo preciso, gli atti notarili e quelli della pubblica amministrazione ci trasmettono tuttavia altri messaggi utili per ricostruire il volto in generale degli edifici, sia pure attraverso accenni frammentari, la cui ricomposizione peraltro appare piuttosto faticosa.
Nei rogiti udinesi l’accenno ai punti cardinali appare solo nel Cinquecento in forma sistematica e senza questi elementi qualsiasi atto di divisione, anche circostanziato sotto altri aspetti. non è utilizzabile.
Bisognerà pertanto giungere al secolo XVI e soprattutto ai successivi per disporre di dati più sicuri di identificazione, quali gli stati e gradi compilati dai pubblici periti.
I rogiti notarili dalla fine del Duecento in poi indicano sommariamente ubicazione e forma delle case, ma non trascurano mai di segnalarne in termini chiari il proprietario, che è giustamente l’elemento più importante che deve risultare dall’istrumento.
Dalla lettura di questo tipo di documenti, corroborata da quella di alcuni atti pubblici degli Annales e degli Acta e da quelli dei catasti delle corporazioni religiose soppresse, è possibile individuare nel tessuto urbano alcuni fondi pubblici e privati e stabilirne una catena cronologica di inquilini o di proprietari.
Benché le testimonianze utilizzabili per l’indagine delle Memorie siano isolate, e le rimanenti, che nell’opera non hanno potuto trovar posto, mostrino un agglomerato urbano di case piccole e povere, tuttavia queste suggeriscono l’idea di costruzioni ormai complete in muratura con tetto di tegole, «cum duobus», o al massimo «tribus soliis». Gli edifici coperti di paglia risultano pochissimi, e in questo caso sempre adibiti a stalla o a capannoni di servizio. Del resto esistono notizie precise di provvedimenti che proibiscono la pericolosa adozione di coperti di tale tipo, facilmente infiammabili e non adatti a concentrazioni urbane: almeno dal 20 marzo 14304, con richiami il 30 aprile 1437 e il 13 settembre 14385.
Si riscontrano in ogni modo vari casi di evasione in merito, ma si tratta sempre di edifici situati in periferia, dove le abitazioni sono più rade e la sorveglianza può quindi allentarsi. Per queste zone le eccezioni all’applicazione delle leggi si notano anche in tempi relativamente recenti: nel 1609 l’ospedale maggiore possiede ancora un’aia coperta di paglia presso la Porta Cisis6; il 6 gennaio 1673 Lonardo Rovere vende a Francesco del fu Francesco Fattor una casa coperta di paglia situata in borgo Gemona7; il 5 febbraio 1713 si segnala un edificio in Baldasseria8; il 30 maggio 1846 si tratta di un’osteria fuori Porta Pracchiuso9, senza contare il patetico caso di G.B. Franzolino di Chiavris che il 7 novembre 1831 sta erigendo «un casotto coperto di paglia» che «intende d’abbitare con sua moglie e tre suoi figli tutti minori degli anni otto; intende parimenti di far fuoco ad uso di cucina , quattro passi distante dalla strada comunale»10. Anche se i rogiti restano muti sull’aspetto generale dell’edificio, del quale al massimo indicano il numero di piani, a volte essi trasmettono alcuni particolari che possono invitare a deduzioni. Per esempio il poggiolo di pietra di casa Valvason (che in una giornata ottobrina del 1507 ospita il professore di grammatica Andrea Diana, ricevente dal dottore di diritto civile Ippolito di Valvason e da suo fratello Leonardo 40 ducati, quale prezzo di una parte di mulino venduto dal primo ai secondi) costituisce una spia per concludere che l’edificio Valvason non può essere modesto, tanto più che la terrazza deve essere tanto ampia per ospitare, oltre i padroni di casa e il venditore, anche il notaio rogante Roberto da Latisana e almeno due testimoni debitamente citati.
Invece il «pozoletto di tolle con scaletta di pietra», che è ricordato il 6 aprile 1666 in un’aia di via Cussignacco, si riferisce certamente a un edificio modestissimo11.
Un altro elemento delle case, ossia il portico, viene spesso citato anche nelle testimonianze più antiche. I primi rogiti udinesi pervenutici, come per esempio quello di Pitta del marzo 129912 lo segnalano abbastanza frequentemente.
Molto prima delle grandi riforme ottocentesche si aboliscono parecchi tratti di porticati in strade che oggi non conservano edifici con tracce di strutture del genere. Così è fornita di portico la casa del calderaio Melchiorre in borgo Grazzano «super angulo ex opposito anchone», al proprietario della quale il 12 marzo 1501 il consiglio della città di Udine concede la facoltà di incorporarne lo spazio nell’edificio «attento quod dicta domus erit ad ornatum civitatis»13.
Della stessa via Grazzano il 22 ottobre 1567 si cita un altro portico14. Basta poi pensare che nel borgo anticamente chiamato Cividale oggi solo la casa Caimo-Dragoni è fornita di portici; ma nel Quattrocento se ne potevano contare alcuni altri, come quello di donna Bona15 e quello del pittore Antonio16. Gli accenni a tempi precisi di abbattimento e d’incorporazione di queste strutture risultano però molto rari fino al secolo XIX.
Più frequenti sono invece le notizie relative ad ambienti particolari delle abitazioni idonei alla conservazione dei generi alimentari: non mancano infatti le dispense e i granai, le aie coperte, i magazzini di vario tipo. Molti edifici sono attrezzati per ospitare laboratori e depositi per i beni degli inquilini. In tal modo nella città vengono enucleandosi alcuni centri nei quali prevalgono particolari attività, dal periodo medioevale all’Ottocento.
Qualche casa antica, secondo la documentazione quattrocentesca, è fornita di torre: nel 1491 Antonia Freschi ne ottiene una della vecchia cinta che sorge presso il suo orto (n. 740)17; secondo una notizia del 21 settembre 1513, la casa di Giovanni di Michele di Zucco ingloba una torre scoperta del muro castellano che passa dietro le sue case18, fra il Castello e la Porta Pracchiuso; verso il Giardino, alle falde del colle, ne sorge una nella proprietà Pavona che ser Francesco chiede ed ottiene per adattarla a colombaia, come si annota il 16 marzo 143019; Valentino Valentinis riceve il permesso di ricostruire quella diroccata nelle sue proprietà presso la Porta Pracchiuso e arricchirla di un ballatoio, come è citato il 3 ottobre 140720; ugualmente è dotata di torre nell’androna del Feruglio, verso S. Pietro Martire, la casa che il 9 aprile 1558 Andrea del fu Francesco di Brazzacco affitta a Bartolomeo del fu Nicola Busatto da Feltre21; una torricella viene acquistata e incorporata nella proprietà Antonini in Grazzano nel 1662 (n. 385). Si tratta di elementi delle vecchie mura cittadine, la cui funzione di difesa è ormai scaduta, data l’espansione della città oltre i vecchi recinti.
Nonostante le spese di manutenzione che tali costruzioni comportano, pure alcuni privati benestanti approfittano dello stato di abbandono in cui esse versano, per allargare i confini dei loro fondi contermini. Oltre ai citati, bisogna infatti ricordare i Savorgnan con la torre sui Gorghi e con quella interna di Grazzano22 (seduta del 18 marzo 1483), gli Arrigoni con la torre interna di Poscolle23, i Valentinis con quella di S. Bartolomeo (n. 1807), i Maseri con quella di S. Maria (n. 947), i Florio con quella di S. Lucia (n. 814), i Lovisini e i Frangipane con quella interna di borgo Aquileia (n. 1856, 1857), gli Antonini della «Casa grande» con «un torion fornito» in borgo Gemona24. Non mancano tuttavia casi di locazione da parte del comune a persone bisognose, che non sono in grado di pagarsi affitti. Una circostanza particolare è costituita dal caso del pittore Pellegrino del fu Battista il quale il 17 dicembre 1495 offre i suoi servigi alla comunità, in cambio della locazione di una torre, che gli viene concessa, «considerata non mediocri utilitate qua nostra comunitas ex concessione supradicta sibi facienda consequetur»25.
Dal 30 luglio 151726 l’affitto di una torre si pagherà con un paio di pernici.
A vincoli molto più impegnativi e antichi, di tipo feudale, sono soggetti invece parecchi edifici urbani. I proprietari devono riceverne l’investitura e pagare il laudemio. Spesso anche i terreni scoperti, specie lungo i fossati delle mura, sono censuali. Nelle trasformazioni subite dalla città durante il corso dei secoli qualche fondo di questo tipo viene inglobato in fabbriche con piante di aree più ampie o in ogni modo non sempre coincidenti con quelle originali. I proprietari mutano, il tempo trascorre, le case si distruggono e si ricostruiscono, ma ad ogni passaggio di proprietà si deve rinnovare la cerimonia d’investitura. La tradizione si perpetua fino all’annessione al Regno d’Italia.
Di quale materiale gli antichi edifici, specie modesti, fossero composti è abbastanza facile dedurre. Ancora oggi le case dei quartieri sopravvissuti alle demolizioni mostrano sotto l’intonaco muri di sassi. Così dovevano essere le nostre vecchie abitazioni «de muro». Scelti con cura, nel loro colore bianco o grigiastro, e nelle striature e nelle macchie, essi a un osservatore attento ed esperto potrebbero perfino indicare il luogo d’origine dal quale sono rotolati. Furono evidentemente raccolti in gran parte nei letti dei torrenti Torre e Cormor, che lambiscono i confini del territorio udinese lungo due lati opposti. Sembra che anche le cave dalle quali i sassi potevano provenire appartenessero nel Medioevo a potenti famiglie che ne vendevano il materiale, o in ogni modo lo cedevano in cambio di qualche beneficio. Così i Savorgnan nel 1370 per la fortificazione della città permettevano agli Udinesi di utilizzare come cava di sassi una loro proprietà presso Basaldella27.
Non altrettanto semplice e breve è il percorso della pietra che viene impiegata negli edifici udinesi. Per questo argomento bisogna attingere a registri più recenti, di altro genere, che tuttavia nella presente opera compaiono episodicamente. Per la chiesa del Cristo, per esempio, la pietra si acquista nel 1669 a Faedis e a Tarcento; gli stipiti delle finestre della chiesa di S. Lorenzo dei Barnabiti sono di pietra di Cividale, mentre quelli delle porte provengono da Tarcento e dalla Bernadia. In città, però, non manca sicuramente la pietra di Meduno, come si legge in un documento relativo a un antico palazzo di borgo S. Maria Maddalena (n. 76).
Anche se il tipo di documenti compulsati non si riferisce direttamente alla costruzione dei complessi e non fornisce elementi sufficienti per ricostruirne la storia, il materiale stesso, per un esperto, ancor oggi può fornire indirettamente alcuni indizi circa la sua provenienza, come notoriamente a qualsiasi udinese parlano le pietre del marciapiede selciato di riva Bartolini.
Il costo dei materiali di costruzione, ampiamente testimoniato nei documenti dell’amministrazione del comune, delle confraternite, degli ospedali e di talune case private, spiega la tendenza al riutilizzo delle pietre. Cosi dalla demolizione della Porta interna di Gemona nel sec. XVI si recuperano materiali per il Castello28. E ancora nel 1717 i marmi dell’altare di S. Eugenio Martire in duomo sono usati nella ricostruzione della chiesa di S. Giovanni di piazza Contarena29.
Se per la pietra è possibile risalire all’origine, per i mattoni non bollati sarebbe più difficile operare deduzioni dall’analisi del materiale. In verità se ne potrebbero trovare tracce nelle spese di costruzione dei singoli complessi, tipo di documentazione, questa, che quasi sempre esula da quella consultata per il presente lavoro o che vi rientra solo in forma isolata. Sappiamo tuttavia dell’esistenza di fornaci che vendevano laterizi per le fabbriche della città. Un importante accenno negli atti pubblici il 22 dicembre 1352 segnala che i fornaciai udinesi nella fabbricazione di tegole e mattoni non si attengono al modulo stabilito. Il consiglio della comunità nel giro di un mese provvede a far controllare e a imporre i prezzi per laterizi e calce30. Il controllo sull’attività dei fornaciai continua attivo. Il 16 marzo 1430 il cameraro lamenta che i «fornesarii faciunt modonos diversificatos, bastardando illos et faciendo minus parvos». Si ridistribuisce nuovamente il modulo fissato31. Il 12 novembre 1406 si accenna all’esistenza di una fornace in Basaldella di proprietà degli orfani di Francesco Fabbro. Su istanza dei tutori, ne viene affidata la condotta a Nicoletto da Venezia, abitante a Udine32. Di una fornace pubblica si parla il 24 gennaio 145433, quando il comune stipula il contratto con Giovanni Pietro del fu Antonio da Padova. Di particolare interesse è il documento del patto decennale del 3 luglio 1490 fra m. Gerardo di Francesco e il comune, in quanto ne sono riportati tutti i capitoli34. Nomi di fornaciai si trovano sporadicamente, di solito legati a questioni estranee alla loro attività. Un caso speciale è costituito da quel Giovanni che il 10 marzo 1404 viene denunciato al consiglio comunale dal vicino, notaio Francesco di Canzio, in quanto «nuper fodit terram tenacem in publica via per ante domum eius habitationis»35. Nel 1548 gli atti del consiglio accennano a una fornace pubblica ormai venduta da qualche anno, ma che il comune vorrebbe recuperare36. Ancora nel Cinquecento funziona a Godia una fornace di Alvise de Sanctis, come indirettamente veniamo a sapere da un documento del 23 gennaio 152337. Vi si preparano «planellas, lateres seu motonos», come precisa un atto del 27 febbraio dello stesso anno38. Bisogna quindi ritornare alle spese generali di costruzione per ricavare notizie più precise. Nel 1669 per la chiesa del Cristo si liquidano polizze per mattoni a m. Giovanni Bertiolo e Giovanni Antonio Pozzo, entrambi di Cividale; per pianelle a Giorgio Liruti di Villafredda. Le tegole comprate dall’Asquini al Portone di Poscolle nel 1597 non necessariamente sono prodotte in loco, in quanto potrebbe trattarsi solo di un magazzino di vendita. Nel Settecento, per una gigantesca opera come quella dei Barnabiti, si ricorre alla fornace di Rubignacco39. Nel 1734 gli stessi Barnabiti acquistano mattoni da certo Giangiacopo Sicco, che nel 1743 fornirà anche 9200 tegole. Nel corso del medesimo anno il sac. Giovanni Bernardis di Ipplis porta loro mattoni doppi.
Non a negozianti udinesi, ma evidentemente ai loro fornitori diretti ci si rivolge per il ferro quando ne occorrano grandi quantità, come per la fabbrica dell’ospedale alla fine del Settecento, quando si compera il materiale a Villacco.
Per il legname, al solito, è la Carnia la grande riserva. Ancora una volta una importante testimonianza degli Annales ci riporta ai Savorgnan: nel 1495 Troiano offre «quattuor magnas trabes» o «bordonalie» di larice di Forni di Sotto per la costruzione delle fabbriche pubbliche40. Alla fine del Settecento l’ospedale ricorre ancora ai boschi di Chialina e di Arta.
Per quanto piacevoli, eleganti e solide si presentino all’esterno e all’interno, è però facile intuire quanto le costruzioni udinesi siano difficilmente confortevoli nella stagione invernale. In particolare le torri cittadine, alcune delle quali, ancora sfruttate in tempi recenti secondo gli intendimenti e con le funzioni per le quali sono state costruite, sembrano diventare alquanto inospitali per i custodi, cosicché, «cum hiems appetit» si rende necessario installarvi delle garitte (“casoni”) per proteggere i poveretti dalle intemperie. L’amministrazione comunale, come risulta da un provvedimento del 14 novembre 1555, si occupa del restauro e della manutenzione41. Il portinaio di Porta Cividale il 19 febbraio 1496 presenta una fattura di sei soldi «pro fieri faciendo unam stupam in turri porte ubi habitat» e ne ottiene il risarcimento dal comune42.
Del resto nel territorio esiste una tradizione artigianale di stufe, specie di muro, della quale resta una traccia recente in un disegno anonimo dell’Archivio del Torso43.
Gli Udinesi, se sono costretti a procurare un minimo di conforto all’interno delle loro abitazioni per combattere il freddo e l’umidità, non trascurano, però, ove esista la possibilità economica, di curare l’estetica delle loro dimore: nelle case, infatti, che ostentano un certo decoro, l’intonaco esterno è dipinto. I documenti parlano di decorazioni a scacchi, di pitture di stemmi, di immagini sacre e profane. Naturalmente i soggetti mutano secondo i tempi, i gusti e le esigenze dei committenti. Di alcuni dipinti è stato facile tramandare, se non i lacerti, almeno la memoria, perché opera di pittori di fama: così è per la casa di Giovanni da Udine al n. 1534, per quella Tinghi del Pordenone al n. 1849, per quella n. 1574 in Portanuova con l’affresco del Blaceo, per quella Belloni col S. Cristoforo di Pomponio Amalteo al n. 456, per le case di via Mercatovecchio al n. 757 e per quella della confraternita di S. Lucia al n. 1086, entrambe opera di G.B. Grassi. Di altre abitazioni, meno nobili e senza pretesa, ma pur sempre caratteristiche, rimane ancora il ricordo nelle opere settecentesche e ottocentesche: la casa del leone di S. Marco in Poscolle (n. 648, A.S.U., C.A. I, 206/1833/I, 2398 Orn. II C, con dis.) e quella al n. 1549 in piazza S. Cristoforo, alla quale è legata la storia della censura da parte dell’abate Florio e della conseguente modifica. Inoltre la torre di borgo S. Bartolomeo e quella esterna di via Aquileia conservarono tracce abbastanza visibili di decorazioni fino a tempi recenti. Delle pitture di talune facciate di case conosciamo solo il soggetto: una S. Maria col leone nella casa di Speronarie44, il S. Giovanni sulla piazzetta omonima al n. 427, e la Madonna con Santi in via Poscolle al n. 646, già non più visibile nel 1774, «l’arma cum lo rovulo» sulla facciata dell’edificio al n. 815. Ma come dovevano presentarsi le facciate, che vengono semplicemente definite «dipinte», della casa Caimo n. 383, della casa del Crocifisso ex Osellini in via Grazzano di fronte al palazzo Deciani45: oppure della casa Ettorea n. 1684 di via Treppo? Del resto è facile immaginare come altri edifici ospitanti le innumerevoli botteghe di pittori e intagliatori cittadini nell’arco di tempo che va dal Duecento all’Ottocento abbiano potuto facilmente essere decorati esternamente dagli artisti operanti all’interno delle case stesse.
Su questi muri appare talvolta qualcosa di spurio e inatteso. Il 2 gennaio 1403 il notaio Matteo da Sammardenchia protesta pubblicamente e chiede un’inchiesta «de hiis qui scripserunt contra honorem eius in domibus per terram Utini»46. Non deve trattarsi di un fatto isolato, se nel 1561 è addirittura necessario stabilire una taglia su coloro che hanno scritto ingiurie sui muri della città47. Si può dedurre che a farne le spese siano naturalmente le case intonacate, non certo quelle che mostrano i sassi a vista.
Un elemento caratterizzante dell’edificio può essere fornito da un’insegna, che indica la presenza di laboratori e negozi. Le spezierie in particolare si sbizzarriscono con soggetti eterogenei, che spaziano dall’argomento devozionale al mitologico-fantastico; il “Gesϊ” del Caratti (n. 792), lo “Struzzo d’oro” (n. 786), la “Sirena” (n. 850), il “Centauro” (n. 751), la “Campana” del Quadra (n. 786), 1’“Alfiere” dei Beretta48, la “Salute” (n. 758), la “Speranza” (n. 449), “Santa Lucia” di Ronchi e Rosa (n. 1253). Veramente azzeccata appare quella “Ad signum lunae” che inalbera il fruttivendolo Bortolo di Bartolomeo Fontana in Poscolle, secondo una testimonianza del 1 gennaio 154749. Spesso il soggetto rappresentato è definito “d’oro”, come nel 1605 la “Testa d’oro”, insegna della bottega di panni di Giacomo Sacchi50, il calice d’oro della bottega degli Zucchi (n. 817). Soprattutto se ne abusa per le osterie e le locande: “Aquila d’oro” (n. 643), “Bue d’oro” (n. 1485), “Campana d’oro” (n. 1650), “Scala d’oro” (n. 417), “Stella d’oro” (n. 395), “Angelo d’oro” (n. 1418). In questo campo poi è abbastanza facile notare un’evoluzione di gusti e mode per locande e alberghi: dalla “Spada” citata dai documenti al principio del Quattrocento51, al “S. Giorgio” o “Nave” (n. 793), fino alle ottocentesche “Aquila bicipite”, “Porta Eugenia”, “Ritorno degli Italiani”.
La parte posteriore degli edifici quasi sempre trova sfogo in uno spazio che oggi definiremmo “verde”. Fino al Settecento non si parla di giardini, ma di orti, di alcuni dei quali ci sono pervenuti inventari e stime minuziosi, come per esempio di quello della famiglia de Simeonibus del 7 settembre 1677 situato sotto il «muro dei volti del Castello». Vi si citano: «un sterpo d’oraro sotto il muro del castello, sei sterpi di mellari, tre d’essi grandi belli; due susinari grandi, un altro mezzano et altri due più piccoli, tutti a frutto; due figari grandi et due piedi di viti vecchie»52. Orti microscopici si addossano alle case, si arrampicano sulla riva del castello, sprofondano come pozzi tra gli edifici. Esistono però anche orti e giardini ampi, addirittura in grado di ospitare cedrere, come nel palazzo Garzolini. Il nome stesso di un vicolo in borgo Grazzano, detto del «Brollo», ancora nel 1764, secondo il catastico Gallafà (f. 139r), farebbe dedurre che una delle case gentilizie dei dintorni da molto tempo disponesse di un orto di notevole estensione.
Circa i nomi delle “androne”, alcune altre si dovrebbero aggiungere a quelle note al della Porta nella Toponomastica. Basta citare a caso l’«androna stupe» del 1403 in borgo Gemona presso Gregorio Arcoloniano53 e, sempre nella stessa zona, quella di ser Monachino presso la torre del comune54. Nel 1764 ancora quella dietro l’oratorio del Crocefisso viene chiamata Gubertina, quando le case di quella famiglia sono da tempo scomparse55. L’androna dei Guantari è citata in via Cussignacco nel 164356.
È curioso poi notare quanti diversi nomi alcuni vicoli riescano ad assumere nel giro di pochi anni. Basta prendere un edificio di una laterale di via Poscolle, per notare come la denominazione della strada muti quasi ad ogni passaggio di proprietà, anche se alcuni toponimi sembrano coesistere. Benché in tempi storici sopravviva nella toponomastica il ricordo di concentrazioni di artigiani in determinati luoghi della città, pure la documentazione qui raccolta, anche perché in gran parte tarda, non conferma l’esistenza di raggruppamenti di attività in settori urbani definiti che da queste avrebbero preso il nome.
Si deve però tenere conto del tracciato delle rogge e della ubicazione degli orti periferici e dei campi estendentisi immediatamente fuori delle mura. Lungo i corsi d’acqua necessariamente si sistemano le tintorie, che talvolta recano disturbo alle attività dei cittadini, come ci induce a credere il provvedimento comunale del 2 aprile 1406, col quale si decide di «removere illam tinctoriam sitam super gurgite Postcolli»57.
Altri mestieri richiedono la presenza dell’acqua corrente, come per esempio quelli dei conciapelli e dei pellicciai, che si concentrano lungo il percorso delle vie d’acqua cittadine; quindi via Gemona, borgo S. Cristoforo, borgo S. Maria, borgo Grazzano (A.S.U., C.A. I, 285/1838/VII Orn. II C, con dis.), Giardino Grande e Gorghi sono disseminati di piccoli opifici e lavatoi, dove convengono gli addetti ai lavori che si disputano il posto.
Si susseguono poi i mulini, segnalati dal Duecento e operanti per secoli, talvolta posseduti a frazioni come moderne società per azioni, fonti di reddito anche per l’ospedale maggiore.
Oltre a questi si segnalano gli sbarramenti chiamati stufe, secondo l’accezione che lo stesso della Porta chiarisce58. Al tipo boccaccesco si ricollega invece quella cui l’8 novembre 1406 allude il barbiere Pascolino nel consiglio comunale: «Pacutus male retinet illam stupam quia palata ante fatiem eius est destructa sic quod bone domine et alie quam plures persone honeste per inde transeuntes accedunt cum maximo rubore et verecundia ex eo quia ille peccatrices ibidem permanentes multa vituperosa commitunt»59. Deve trattarsi di una stufa con bagni, che sembrerebbe luogo di perdizione, a quanto si deduce anche dal documento del 1495 per la casa n. 1809, col quale il consiglio della città concede un tratto di terreno pubblico al dott. Giacomo Florio perché riedifichi le sue case «hac tamen condictione, quod dictus d. Iacobus nec eius heredes ullo unquam tempore possint in dictis domibus facere stuffas sive balnea nec tenere publicas meretrices». Sotto il nome di mulini vengono indicati anche opifici di altra natura non sempre precisata. Quantunque non si riferisca al territorio urbano, è però utile a questo proposito ricordare un rogito del 9 gennaio 157860, col quale i Candidi affittano il mulino detto «dei Savaloni», situato fuori Porta Grazzano, descritto come un «molendinum cum quinque rotis aptis ad macinandum, alia rota serviente fullo pannorum et alia serviente maleis pistandi linum et panicum». E ancora più specifico appare l’impiego che il cartaro Cristoforo intende fare di un mulino, quando il 18 marzo 1400 con il falegname Giovanni chiede il permesso al consiglio di Udine per venire in città «causa faciendi ipsorum misterium, sive faciendi cartam bonbicem, rogans quod detur eis unus locus abilis, seu unum molandinum fractum penes rugiam, in terra vel extra»61.
Echi di indecorose zuffe, «rixe et scandala», di tintori ai lavatoi lungo i corsi d’acqua si raccolgono abbastanza presto negli Annali della città, come quelli del 1452 tra gli operai di Erasmo Erasmi (n. 385) e i concorrenti dipendenti da m. Andrea. Dell’opificio degli Erasmi si trovano ancora tracce, almeno sino al tempo di una figlia di Antonio, che è ricordata come proprietaria del complesso ancora il 1 febbraio 150962. Questa e la tintoria della casa n. 1809 sono le più citate tra quelle più antiche udinesi. Di un laboratorio del genere situato in borgo S. Maria, appartenente al Monte di Pietà, parlano anche i documenti cinquecenteschi relativi al complesso n. 705. Ne è rimasta una interessante stima, redatta, in occasione di una permuta, dai pubblici periti Camillo Caimo e Giuseppe Mantoano.
L’attività delle tintorie in ogni modo deve essere regolata da provvedimenti comunali per proteggere l’igiene e la salute dei cittadini. Così il 30 gennaio 1648 si proibisce «ai tintori di questa città di gettar nelle roie le materie grasse colorate che rimangono nei fondi delle caldaie»63.
Dettato da analoga preoccupazione è il decreto comunale del 29 marzo 1710, secondo il quale non è concesso l’impianto di alcuna conceria di cuoio e pelli se non previo permesso dei provveditori alla sanità64.
Di conciapelli nella popolazione artigiana udinese si annovera sempre un numero consistente. Nel 1568 viene scavata una rosta appositamente per calzolai e conciapelli, che si obbligano a conservarla e mantenerla a loro spese, anche se inizialmente la comunità contribuisce con un’elargizione di duecento ducati d’ oro65.
È quindi naturale che un artigianato del genere richieda sulle sponde delle rogge non solo la presenza dei laboratori, ma anche di abitazioni degli addetti ai lavori. Quasi inevitabilmente certi quartieri assumono perciò aspetti particolari, quasi ghetti di mestieri.
E se i corsi d’acqua richiamano tintori e conciapelli, i pascoli attirano coloro che si occupano dell’allevamento del bestiame, come puntualmente accade in periferia. Un Andrea armentario alla fine del Quattrocento66 abita in Pracchiuso. Evidentemente è possibile in quella zona allevare animali entro le mura. Nelle vie in cui risiedono gli agricoltori del resto l’allevamento è praticato, com’è noto, anche nell’Ottocento.
I documenti consultati per il presente lavoro non sono però quelli utilizzabili a fondo per i quartieri periferici, in quanto mancano sufficienti punti di riferimento per stabilire una successione di inquilini o di proprietari di edifici; ma, anche tenendo conto di quelli medioevali, che nelle Memorie non si sono potuti inserire, per la zona di via Ronchi per esempio non si è trovata traccia dei cordai, dei quali invece nell’Ottocento si enumera una certa quantità di laboratori.
Più facile è capire l’ubicazione dei banchi di cambio, che ovviamente si concentrano nel cuore della città. Agli inizi del Quattrocento se ne possono individuare almeno tre, di cui due in Mercatovecchio, nell’aprile 1410, uno di Pietro Passerini67, l’altro di Sandro Raineri68; e uno nel 1415 in Mercatonuovo, gestito dallo speziale Amanado del fu Bertolino69. Un ventennio prima (nel 1393 è citato come defunto), abitava in Caligarezze il «campsor» Nicoletto da Venezia70.
Se la presenza dei banchi di cambio riporta ad una attività commerciale di tipo urbano, non bisogna dimenticare che questa si svolge in un ambiente e in un contesto di edifici alquanto eterogenei: bisogna infatti tenere conto che ancora il 14 aprile 1404 Tristano di Savorgnano possiede «quasdam aryas super plathea comunis quas offert comunitati nostre pro aliquo iusto et convenienti pretio»71.
E non soltanto nel centro sorgono ancora le aie, ma per le vie razzolano i maiali, che si aggirano nei pressi della cattedrale e rosicchiano le ossa nel cimitero antistante. Quest’ultimo sarà il motivo per il quale i pubblici amministratori se ne occuperanno in una seduta del 12 maggio dello stesso anno72. (Il bello è che si parla di rimuovere le ossa, non di allontanare gli animali!) Sembrerebbero tempi di non profonda spiritualità, dati gli episodi di questo genere, collegabili però a fatti abbastanza recenti che, anche a prescindere dalla profanazione, denotano mancanza di sensibilità, se dobbiamo credere a un’affermazione dell’aprile 1877, quando in consiglio comunale si chiede di eliminare l’icona di via del Giglio, perché nottetempo gli ubriachi malintenzionati, soffermandosi davanti all’immagine sacra, commettono «atti irriverenti»73. Simili immagini sacre in città una volta erano abbastanza frequenti. In alcuni punti strategici, specie agli incroci, qua e là sorgevano delle “ancone”, utili punti di riferimento per i cittadini; quelle dipinte sui muri potevano indicare l’ultimo segno di proprietà da parte di organizzazioni laiche d’impronta religiosa. Alcune sono sopravvissute fino all’Ottocento, certe addirittura fino ai giorni nostri. Scomparsa da tempo è quella di via Grazzano, attestata almeno dal 140274.
Dalla fine del Cinquecento s’inserisce e via via nei secoli successivi s’infittisce un nuovo tipo di documentazione che precisa la struttura delle case udinesi: i pubblici periti sono incaricati di elencare in modo sistematico le misure e i materiali impiegati nella costruzione degli edifici che interessano i committenti per diversi motivi, come la stima necessaria per una compravendita o per divisioni di eredità. A poco a poco la perizia diventa un documento indispensabile nelle transizioni e nelle divisioni e se da principio essa viene compilata solo per le case dei benestanti, gradatamente s’impone anche per la valutazione di edifici modesti.
In tal modo ci sono pervenuti inventari di ogni tipo. Vi si raccolgono termini dialettali, quasi ormai scomparsi dalla parlata cittadina: cogolado, frisi o sfrisi, luminal, bastardello, andio, mezzado, destro, caneva, teza e tezone, tempiaro, ione, bordonali, coperto, tavellado, degorenti, battudo, modeoni, soaze, trapartite, lazzi, polesi, schione, schionelle, paradane, grisiole, ecc.. Si tratta di vocaboli che indicano materiali, ambienti, parti di costruzioni. Scorrendo le stime si possono cogliere elementi che, meglio se ordinati e organizzati, o anche isolati e presi a caso, possono aiutare nella ricostruzione dell’architettura di un edificio.
Della casa di Montegnacco (n. 791), date le note vicende del riutilizzo del materiale di demolizione e la ricostruzione del palazzo in altro luogo su scala diversa e con i risultati che oggi tutti possono riscontrare, sarebbe utile ricordare le misure della facciata originale: «muro in facciata da tramontana largo dentro li muri pd n. 21, alto, compreso porzion di fonda, pd 10, fa ps 8 pd 2». Si tratta della stima redatta il 1 luglio 1802 dai periti Carlo Iacotti, Antonio Colaone e Osvaldo Colomba, in occasione della permuta fatta dai Montegnacco con Antonio Pasini. Misure precise e in un certo qual modo anche forme emergono dalle perizie per aiutarci a ricostruire le facciate di certi edifici. Per esempio, secondo la stima compilata da Agostino Nipoti e Antonio Contrino il 9 aprile 1655 nella casa che Giacomo Strassoldo vende ai fratelli Caiselli, risulta che il camerino presso la sala si affaccia verso il borgo S. Cristoforo con una «fenestra in pietra lavorata col suo volto sopra la strada, con doi palle, telari, rame di veri scuro, val tutto L 132»75. La stessa casa vanta un «poggiolo di piera lavorato sopra la strada longo pie 17 alto pie 2 1/4 con parapetto trasforato e 4 puttini, 4 palle tonde, due antili alti pie 14 1/2; due colone tonde con base e capitelli, tre volti, cornise, fassa o friso; per il zapado di lastre con modeoni sotto, telaro di pietra sopra la salla longo pie 10, talari di larise, rame di veri rotti delle tre balconade, val tutto ducati 350»76. Anche i giardini ostentano ricchezza e raffinatezza. Nel cortile dell’edificio n. 416, che il march. Giacomo Savorgnan vende a G.B. Sabbadini l’8 giugno 1804, Carlo Iacotti elenca una «traversa di muro con quattro collone di pietra, servono di base alle quattro stattue di pietra con sopraciglio pure di pietra» e subito sotto «quattro statue di pietra stimate dal statuario Mattiussi L 2480», prezzo non trascurabile. Le porte sulla strada appaiono bene sbarrate, come si deduce dalla stima della facoltà Ronchi e Rosa in borgo S. Lucia, stima compilata il 31 agosto 1713 per le divisioni. Una stanza che si apre sulla strada è protetta da uno «scuro in due parti suazzado, quattro lazzi, tre cadenazzi e due manazzoni». La porta della spezieria poi ha uno «scuro in due parti, quattro lazzi, cinque cadenazzi et rebatto sopra»77. Se i Rosa avvertono la necessità di sbarrarsi con cinque chiavistelli, agli inquilini dei conti Caiselli in borgo d’Isola (secondo quanto ci tramanda il pubblico perito Giuseppe Del Zotto di Adegliacco, che il 6 luglio 1654 stima appunto la casa n. 1424), basta una «porta dela strada in doi pezi con lazi, uno cadenazo, di tole ignude, val L 10»78. Anche le finestre esterne sono ben difese nella casa dominicale acquistata dal Liruti sulla Riva del Giardino: secondo il grado rilevato il 31 gennaio 1785 da G. Carlo Iacotti in una camera del primo piano, in angolo fra levante e mezzodì, due finestre che «corrispondono alla Riva del Giardino» sono munite di «griglie al di fuori in due parti con 4 bertoelle, polesi e susta in mezzo serve per serrar»79.
La descrizione degli interni, analogamente a quella degli esterni, è accurata e fornisce scorci di forme che manifestano i gusti del tempo. Prospero Verzegnassi e Simon Periotti nella stima della casa Frangipane (n. 368), in occasione della vendita ai Sabbadini nel 1804, ricordano che nel primo appartamento, «nel curidore a tramontana interviene alle scalle», si apre un «portoncino al pergolo in riquadro di pietra a volto, con dadi, imposte e serraglia e piano pieno del pergolo sostenuto da tre modeoni di pietra, balaustro di ferro con banchina di tolle sopra»80. Così nel palazzo Sarmede (n. 425), secondo l’asse della facoltà di famiglia81, la sala sarebbe stata ornata di «stucchi nelli muri e sopra le porte con soazze pur di stucco, servono a undeci quadri» (f. 9v).
Nella stessa «fabbrica famigliare a mezzodì del cortivo» in una stanza del secondo appartamento presso la scala, il perito cita: «pittura alli muri di questa camera e sotto il soffitto, che è di tella, considerato compresa la tella del rev. don Antonio Facci e nob. sig. G.B. Rubeis L 90» (f. 38r). Per avere un’idea delle case modeste, basterebbe scorrere l’allibramento della facoltà Pletto, compilato da Osvaldo Colomba il 30 giugno 178682, che descrive in pochi fogli cinque casette del borgo Villalta, una delle quali acquistata dai fratelli Cosattini di borgo S. Lucia nel 1707. Questo documento è introdotto da un inventario dell’orto, esteso per ps 1047 pd 2, situato tra le proprietà Antonini, di Montegnacco del Pozzo, Cornelio e Cuberli. Vi si citano «morari fruttiferi», «brugnulari», «vitte fruttifere, la maggior parte per terra per mancanza di sostegno, n. 103». Non è certo un orto che possa ospitare cedrere, come quello del palazzo Garzolini, tanto per citare un esempio, ma è sicuramente una proprietà consistente di sobborgo, se teniamo conto che il fondo e l’orto della casa n. 1833, abitata dal vescovo Eusebio Caimo, secondo la stima del 25 maggio 1634 di Antonio Contrino, misura soltanto ps 16083.
Anche l’arredamento è soggetto a inventario, compilato, in questi casi, da esperti del settore. Non si tratta di una vera e propria novità, in quanto nei rogiti notarili in tempi anteriori si trovano esempi del genere, specie per case fornite di oggetti di valore, spesso legati con testamenti o anche redatti per contratti di nozze. Si registrano tuttavia dei cambiamenti notevoli: non solo a causa della minor disponibilità di documentazione per i secoli precedenti, ma soprattutto per il fatto che dal Cinquecento in poi da parte della popolazione si ricorre con molta maggior frequenza agli inventari, per la compilazione dei quali si pretenderà via via una competenza sempre più affinata e specialistica.
All’apparenza pignoli e pedanti, questi elenchi nella sostanza s’impongono alla nostra attenzione, perché, parlandoci del fasto e della miseria delle case, ne resuscitano gli antichi ambienti, rivelandoci il tenore di vita, l’attività, i gusti dei proprietari.
Se scontata appare l’importanza degli inventari delle case gentilizie o mercantili d’alto rango, dove la ricchezza dell’arredo e la presenza di opere d’arte richiamano l’attenzione degli studiosi di storia dell’arte e del costume, vivi ed efficaci risultano quelli delle case modeste, dove la quantità ridotta e lo scarso valore degli oggetti, crudelmente posto in rilievo dalla stima, presentano il quadro patetico di famiglie, nelle quali gli eredi tentano di valutare, spartire, conservare e tramandare poveri oggetti della vita quotidiana, legati alle prime necessità di ogni nucleo familiare.
Uno studioso di storia dell’arte può trovare degno di attenzione l’inventario della casa Greatti (n. 517), nella quale si elencano vari quadri, citati però solo per soggetto, alcuni semplicemente indicati come «cespugli e monticelli». Ricco e fastoso è l’elenco dei dipinti del palazzo Deciani al n. 382, che annovera una lunga serie di ritratti di famiglia.
Gli stimatori normalmente ritengono molto più importanti i soggetti che gli autori, forse anche perché di questi ultimi si è perduta la memoria o perché in quel momento la forma non appare cosa rilevante. Incuriosisce perciò il fatto che nel 1670 il pubblico perito Valentino Rizzo ricorra a un esperto per compilare l’inventario delle opere d’arte della famiglia Zucchi in Mercatonuovo al n. 817, dove esistono tre quadri del «Zotto Brugnulo», uno del Fubiari, uno del Cosattino e due del Griffoni84, e che un autore di grosso calibro, quale il Carneo, sia citato in un documento del 1695 della famiglia Osellini (n. 638).
Molto spesso i soggetti dei quadri ci riportano a tradizioni devozionali particolari di un certo periodo o legate alla sensibilità del proprietario. A volte ritratti di persone non imparentate con la famiglia indicano amicizie e relazioni dei padroni di casa. Per esempio gli Ottelio possiedono un ritratto del cardinal Barbarigo85. Le case dei ricchi pullulano di oggetti di ogni tipo, fra cui spesso armi non inutili a quei tempi e non si dovevano stupire i contemporanei se nei tinelli di palazzo Ottelio erano esposti «una schioppa et un scavezzo et pistolle n. 4» e nell’andito dello stesso palazzo, fra la cucina e un tinello, c’era «una rastreliera con schiopi all’antica et altre restelliere con schiopi n. 4 simili, con due fonde di pistolle».
Testamenti e inventari aggiungono altre informazioni del genere. Per esempio il canonico Francesco Frattina nel testamento del 18 giugno 1718 detta: «Al sig. Ettore mio nipote lascio le mie pistolle con fondi, coperte di panno negro, due schiopetoni grandi con la sua pestellata di nogara, acciò fornisca con tal addobbo il suo mezzado, volgarmente chiamato da noi la «Priggion forte, con l’antica spada di ca’ Frattina»86. Sono lasciati in eredità oggetti d’uso comune o mobili, diligentemente elencati dall’estensore del documento. L’inventario del perito Pietr’Antonio Verzegnassi accenna a secchi «piccoli con sempio d’otton n. 3, due de’ quali lavorati a mellon, pesano onze 8, a L 2, vagliono L 16»87. Nella stima per il palazzo n. 24, del 7 novembre 1802, si parla di un «armaro di tolle colorito, che chiude l’altaretto della capella, con due portelle, con dodici bartoelle snodate, cadenazzi n. 6, serratura con chiave, pomoletti d’ottone»88. Un particolare curioso può risultare il «cassettino d’albeo piccolo, con due tramezi, serve per poner peruche, L 2», che viene ricordato in casa Conti nell’inventario del 173189.
Tra i “mobili” del palazzo Ottelio del Giardino, al n. 1683, il numero degli oggetti può indicare una cura particolare dell’aspetto fisico dei proprietari: «peruche n. 11 di diverse sorti con sue scattole» (f. 63v).
Accanto a orologi, bottoni, scatole, fibbie, spade d’argento, oggetti d’agata, di tartaruga, oltre alla solita argenteria, ogni tanto sbuca un oggetto evidentemente conservato per il suo valore artistico. È il caso del «vaso etrusco grande», segnalato dal rigattiere Bortolo Coletti nell’arredamento di casa Beretta al n. 951 nell’inventario del 7 maggio 181490.
Tra le cose di maggiore o minor pregio enumerate dai testatori, ci sono anche alcune che oggi non sarebbero assolutamente prese in considerazione. In casa Rieppi, nell’inventario compilato il 20 aprile 177891, è citato perfino «un martello vecchio», valutato s 10 e uno «specchio rotto in soaza negra». Presso i Conti, tra le suppellettili della cucina, è indicato «un mastello serve per lavar le massaricie sopra tre piedi, di tolle, vecchio, val L 1 s 10»92.
Nelle case di una certa pretesa la preoccupazione del decoro non sempre riguarda i locali di servizio, mentre è evidente nelle stanze di rappresentanza, dove i periti notano la presenza di ritratti di antenati e di alberi genealogici e stimano altresì le arme gentilizie scolpite ed esposte sulle facciate o sistemate all’interno. Così i Rosa nella sala della casa dominicale in borgo S. Lucia, oltre al ritratto di Giulio Rosa, nel 1713 ostentano «un arbore di casa Rosa», valutato L 3093.
Il prestigio e la potenza delle famiglie, però, più che dagli stemmi, sono attestati dai documenti custoditi gelosamente negli archivi privati, alcuni dei quali ci hanno trasmesso anche antichi inventari con il regesto dei singoli manoscritti. Scontata è l’importanza degli estratti di originali perduti. A questo proposito basti pensare all’inventario Mantica94, ricchissimo di notizie su transazioni e contratti di vario tipo dal medioevo all’Ottocento. Non si tratta evidentemente di un lavoro di pubblico perito, come del resto sono opera di specialisti la compilazione di un elenco e la valutazione commerciale dei libri di una biblioteca. Queste possono venire commissionate in vista di un inventario generale per atti di divisione o di compravendita. Rilievo particolare assumono gli elenchi delle opere a stampa, che rispecchiano la cultura dei proprietari e a volte illuminano sui criteri, l’ampiezza o i limiti della diffusione di un libro nel tempo. Nel presente lavoro ne è segnalato uno particolarmente interessante per il numero e il tipo dei volumi, ossia quello della biblioteca dei celebri giuristi Ottelio valutata L 4224 s 19 da Vincenzo Miozzi, «libraro al negozio Pezzita». I pubblici periti quindi debbono con serietà professionale ricorrere ad esperti, specie quando si trovano di fronte a patrimoni consistenti e vari. Bisogna tener conto infatti che le stime dei “mobili” comprendono tra l’altro gioielli, opere d’arte, libri, ma riguardano anche i generi custoditi nei granai, nelle cantine e nelle stalle. Le case udinesi delle famiglie benestanti sembrano traboccare di frumento, sorgo rosso, sorgo turco, grano saraceno, avena, segala, mezzine di lardo («baffa porzina»), prosciutti e salsicce. Il perito coordina il lavoro dei singoli e compila un ordinato inventario finale con la stima particolareggiata e con la somma finale.
Nell’Ottocento gli inventari trasmetteranno con grande precisione elenchi di oggetti di botteghe e laboratori e di strumenti di lavoro. Nel Seicento questo tipo di stime è più raro. Pertanto appare interessante quello della stamperia Venier acquistata nel 1671 dai tipografi Schiratti (n. 854) e curioso quello inserito nel processo intentato nel 1663 da Lucrezia Zeraffina contro Amadio Pichissino debitore insolvente. Agli atti è allegato un elenco dei generi esistenti nella bottega Pichissino: colori, carta, pennelli95. Nel secolo XIX si trovano anche inventari di laboratori di orefice, come quello che il Molinari vende al Picco nell’isolato del Monte di pietà il 5 marzo 1822 (n. 71). Si trovano perfino inventari di «effetti e attrezzi d’arte del cordellaio», come quello descritto nella donazione che Giacoma Pillinini fa ai nipoti il 30 dicembre 184496, o quello del «bolzer» al n. 864, datato 9 marzo 1815. Fuori discussione appare l’importanza degli inventari della filanda del n. 936, redatto nel 1848, e del mulino al n. 1405, compilato nel 1809.
Dalla lettura anche cursoria di queste perizie è facile trarre una prima conclusione.
Oggetti artistici, mobili pregevoli, quadri d’autore sono andati dispersi e se n’è avvertita la mancanza ancor prima che se ne formulassero denunce nel corso di questo secolo. Non occorre operare laboriosi confronti fra gli inventari antichi e la realtà odierna, per rendersi conto delle devastazioni operate nel patrimonio artistico dall’impoverimento delle famiglie, dalle divisioni dei patrimoni, dalle impostazioni tributarie straordinarie (conseguenti ai mutamenti politici) e a volte dall’incuria dei proprietari. Per esempio nell’inventario del palazzo n. 24, che 1’8 marzo 1808 il marchese Cortesi Masdoni retrovende a Deciano Deciani, il compilatore esprime malinconicamente il dubbio che in una stanza da letto si possano trovare «due puttini di bronzo annessi alla libreria, se esistono ancora»97. Ma dove sono finiti gli oggetti, i mobili e i quadri che i documenti settecenteschi e ottocenteschi citavano minuziosamente con dovizia di particolari? Opere d’autore delle famiglie Osellini, Madrisio, Zucchi, Lughera, Manin, ricordate in documenti compulsati per il presente lavoro, sembrano attualmente scomparsi.
Una carta sciolta anonima esistente nell’Archivio Caimo98 riporta le seguenti annotazioni:
«18 marzo 1797: entrarono in Udine li Francesi.
9 gennaro 1798: partirono da Udine li Francesi.
9 gennaro 1798: entrarono in Udine li Austriaci.
14 novembre 1805: partirono da Udine li Austriaci.
14 novembre 1805: entrarono in Udine li Francesi.
11 aprile 1809: partirono da Udine li Francesi.
22 aprile 1809: entrarono in Udine li Austriaci.
20 maggio 1809: partirono da Udine li Austriaci.
20 maggio 1809: entrarono a Udine li Francesi.
25 ottobre 1813: partirono da Udine li Francesi.
25 ottobre 1813: entrarono in Udine li Austriaci e furono di permanenza».
A questo nudo schema di fatti, vergato con evidente intenzione di fermare a titolo di appunto personale una successione di avvenimenti drammatici per i contemporanei, è utile che si attenga anche il lettore d’oggi, il quale voglia collocare con esattezza le notizie riferibili alla città. La serie di dati elencati già trasmette l’idea del subbuglio e del disagio che sconvolgono la tranquilla vita cittadina dalla fine del Settecento al principio dell’Ottocento.
Ai cambiamenti di regime sono forzatamente sensibili i notai, che devono rogare atti in nome di un’autorità da citarsi, alle cui direttive essi sono obbligati ad attenersi. I loro protocolli a volte registrano anche brevi annotazioni personali, che forniscono, com’è noto, dati di estremo interesse. Se nel Medioevo questi appunti potevano registrare l’arrivo degli Ungari, o passaggi di truppe nemiche, o lo scoppio della peste o l’evento di un terremoto, all’inizio del secolo scorso segnalano fatti e conseguenze delle guerre napoleoniche. Nel VII protocollo dei suoi istrumenti Domenico Prodolone99 annota: «1809. 12 aprile. L’arciduca Giovanni d’Austria rientrò in Udine con un corpo d’armata, essendo li 11 partiti li Francesi. 17 aprile. In ordine a lettera di ieri del sig. co. di Goess, intendente generale, fu ordinato alli notai d’introdurre negli atti il nome di S.M. Francesco I imperatore d’Austria, ferme le altre formalità legali vigenti. 1809, 11 maggio. Dopo fracassate le armate austriache, rientrarono i Francesi e ritornò l’ordine di prima».
Con questo “ordine” i notai, in seguito al decreto del 16 agosto 1809, sono obbligati a tenere i repertori e quindi a numerare i loro atti in ordine progressivo.
Perfino nei loro rigidi formulari si trovano echi dei tempi e dell’atmosfera che cambia. Antonio Cavassi il 18 ottobre 1797 scrive per la prima e ultima volta nei rogiti il termine «cittadino»: «Udine, in casa degl’infrascritti cittadini Favetti»100. Questi professionisti non sono però i soli ad avvertire le conseguenze del nuovo inquadramento e della nuova burocrazia: anche la documentazione dell’amministrazione pubblica in quegli anni è sconvolta.
Le autorità si alternano, le disposizioni si accavallano. Nella confusione inevitabile i privati cercano di destreggiarsi salvando il salvabile. Anche negli atti pubblici esiste il pericolo dello smarrimento. Il notaio Naschinetti custodisce in casa propria, al n. 1807, una parte dell’archivio pubblico di quegli anni, «carte riguardanti la gestione economica della rappresentazione provinciale sostenuta dall’anno 1798 al 1805 dalle nobili deputazioni unite della città e Patria, che però non sono di grande volume». Il Naschinetti consegnerà il tutto al delegato della congregazione municipale, Giovanni Torre, in data 8 marzo 1827. Il passaggio è consacrato da un atto notarile, al quale è allegato un inventario che comprende 345 voci101, dove si accenna tra l’altro a un Quaderno imposta sopra i fabbricati ed edifici in provincia del Friuli, marcato “Parte seconda per città di Udine, anno 1800". Ma le ricerche di questo manoscritto, che sarebbe stato prezioso per l’oggetto del presente studio, sono rimaste fino a questo momento infruttuose. Nonostante tutto, però, molti atti amministrativi sono sopravvissuti agli sconvolgimenti politici. Di questi una parte molto importante diventa quella comunale. Essa è frutto della burocrazia, che s’impone nella nuova organizzazione dello stato, e, di conseguenza, della metodica e articolata attività amministrativa che fornisce dati più precisi e sistematici rispetto all’età precedente, sebbene a volte questi siano pervenuti mutili o alcuni addirittura si siano nel frattempo perduti. Perciò della documentazione ottocentesca per la storia delle case della città l’archivio comunale diventa la fonte primaria, anche se ovviamente per i passaggi di proprietà è d’insostituibile apporto l’archivio notarile.
Dal Comunale emergono notizie che riflettono gli importanti provvedimenti che l’autorità comincia a imporre ai proprietari o semplicemente agli inquilini delle case.
Una novità sostanziale introdotta nella amministrazione della città durante il periodo di transizione 1797-1813 è senza dubbio la numerazione delle case, eseguita per scopi militari.
Del sistema si occupa Giulio Asquini, che il 12 agosto 1801 «ringrazia per il regalo inviatogli per la numerazione delle case da lui fatta»102. Il disegno delle cifre viene scelto con un concorso del quale il 18 marzo 1801 risultano vincitori i pittori Antonio Bortolotti e Francesco Olivo103. Ben presto tale numerazione viene considerata tanto comoda da essere citata anche negli atti notarili. In quelli consultati per il presente lavoro, la prima volta in cui essa sembra essere stata utilizzata è il 29 aprile 1802, in un rogito di Luigi Bertoldi per la casa Palladio (n. 906). Più tardi essa sarà definita nera, dal colore usato per la pittura delle cifre sulla facciata delle case, anche per distinguerla dalla successiva, detta rossa, dalla tinta usata per la rettifica nell’aggiornamento alla metà del secolo.
La numerazione nera è sicuramente la più importante, sia perché è la prima, sia perché è quella durata più a lungo. Anche quando dovrebbe essere subentrata la numerazione rossa, si continua spesso nei documenti a far riferimento a quella precedente. Così nel 1865 Giuseppe Barbetti cita la propria casa col n. 1432 nero.
La deputazione d’ornato, collaudata l’utilità del sistema, si rende conto della necessità di mantenerlo in efficienza, tanto che il 26 giugno 1841 scrive alla congregazione municipale: «Nelli frequenti ristauri che si praticano ai prospetti delle case di questa regia104 città, è rimarchevole la trascuratezza de’ proprietari di esse a rimettere li numeri civici; per cui si trova la scrivente nel dovere di far di ciò partecipe codesta congregazione, affine si compiaccia di prendere dette misure nel proposito, altrimenti andrebbe in breve tempo sensibilmente ad alterarsi la nomenclatura della medesima ed a rendersi frustanea la rettifica dei numeri già da non molto tempo eseguita, con dispendio e fatica». Constatata l’utilità della segnalazione, segue la notifica del podestà ai capi dei quartieri, in data 25 aprile 1842105. I notai in principio la definiscono esplicitamente «militare», in quanto redatta in vista di un’utilizzazione per le truppe di occupazione. La città non è nuova a esperienze analoghe, avendo dovuto ospitare truppe ogni qualvolta se ne fosse avvertita la necessità. Basterebbe citare i famosi stradiotti dalmati, poi chiamati cappelletti, al soldo della Repubblica Veneta, impiegati contro i Turchi nella seconda metà del secolo XV; oppure i fanti corsi ospitati nel 1610 e di nuovo nel 1646 e nel 1663-1666 le milizie mercenarie impiegate contro i Turchi. Ancora alla metà del Settecento la Repubblica Veneta non dispone di locali sufficienti per accogliere le truppe di passaggio, nonostante le caserme, e deve ricorrere agli alberghi. Vedasi a tal proposito la richiesta di esenzione dall’obbligo di ospitalità avanzata dalla locanda alla “Nave” nel 1752 (n. 793). Soltanto si deve aggiungere che dei passaggi precedenti di soldati si conoscono finora solo notizie frammentarie. La novità della documentazione fornita dalla Nomenclatura del 1801 è costituita dal fatto che tutte le case della città sono passate al vaglio, numerate, segnalate coi nomi dei capifamiglia, siano essi proprietari o siano inquilini.
La successiva registrazione del 1809 (Registro delli aloggi militari) è condotta con un metodo molto più rigoroso in quanto censisce non solo il nome del borgo, della contrada, del numero civico della casa e del proprietario o inquilino, come la prima del 1801, ma vi aggiunge la condizione del padrone, la composizione della sua famiglia nel caso che questa vi abiti (numero uomini, donne, figli, figlie, domestici, domestiche), nome e condizione degli eventuali inquilini e la composizione della famiglia di costoro secondo lo schema adottato per i proprietari, il numero dei vani dell’abitazione nei vari piani, il numero delle rimesse e delle scuderie per cavalli; accanto a questi dati il compilatore indica il grado dell’ufficiale che vi può alloggiare, distinguendo i «sargenti o musicanti» dai soldati che possono trovar posto al momento, «per urgenza» e «in caso estremo». Naturalmente sono indicati i tipi di vani utilizzabili, perfino per i domestici degli ospiti. Una finca per le osservazioni riporta a volte annotazioni preziose, come per esempio per il n. 1309 di Antonio Caparini: «Quivi è fabbrica di tellerie», o al n. 1321 di Orlando Cicogna: «Serve ad uso di fornelli di filanda di seta» oppure al n. 1439, dei fratelli Agricola: «Quivi esiste il r. liceo ed intanto resta sospesa la destinazione».
In ogni modo non sempre i cittadini subiscono passivamente le imposizioni. A proposito dell’occupazione delle truppe napoleoniche esiste una documentazione abbastanza ampia di proteste per la reale impossibilità degli udinesi di adempiere agli obblighi. In tali occasioni i cittadini si rifanno al «regolamento casermaggio» del 6 giugno 1804. A tale proposito vedasi il caso della famiglia Biasutti al n. 1465 e di Paolina della Forza di Pers al n. 649.
Finalmente il Registro delli aloggi mette a disposizione un documento che offre in modo sistematico un panorama dell’attività dei cittadini capifamiglia. Se per i secoli precedenti con le notizie delle fonti finora conosciute si procede a congetture, ora questo registro indirettamente fornisce dati precisi: il numero degli abitanti, il loro indirizzo e la professione dei capifamiglia. Esula dagli scopi del presente lavoro uno studio del genere. Non si può tuttavia fare a meno di notare che nella città almeno 783 capifamiglia sono indicati con la qualifica di possidenti; che 160 praticano l’agricoltura, specialmente nei borghi di Villalta, S. Lazzaro e Treppo; che 154 sono negozianti, 34 falegnami, altrettanti osti, 20 tintori, 17 orefici. Le professioni sono praticate da pochissime persone: 8 avvocati, 8 «patrocinatori», 7 medici, 3 chirurghi. In compenso una schiera di industrianti popola ogni cantuccio della città.
Il governo austriaco nel 1818 raccoglierà a questo riguardo dati statistici più precisi, dal momento che non saranno censite solo le attività dei capifamiglia, ma di tutti i lavoratori dei quattro quartieri. Le cifre appaiono perciò sensibilmente diverse rispetto a quelle del 1809. La categoria di lavoratori più numerosa, ossia quella degli agricoltori, è anche distinta fra maschi e femmine. È interessante a questo punto notare come tra i contadini veri e propri prevalga, anche se di poco, l’elemento maschile con 1087 uomini contro 1060 donne, e come tra i coltivatori di giardini prevalgano invece decisamente le donne, con 106 persone, contro 89 uomini.
La cifra totale dei coltivatori è notevolmente superiore a quella di tutte le altre attività specifiche. Seguono infatti gli addetti ai fornelli per la seta (313), poi i tessitori di lino e canapa (184) che lavorano su un totale di 94 telai, i falegnami (165), i calzolai (128), i fabbri (100), i sarti (98), i filatoiai (68), i mugnai (64), i muratori (63), i conciapelli (54), i tintori (46), i cordaioli (42), i ceramisti (34), gli stampatori (24), i cappellai (14). La stessa fonte ci segnala la consistenza degli animali in città: 47 cavalli di posta, 217 di lusso, 35 per agricoltura, 218 pecore, 60 agnelli, 1 capra, 116 porci e 92 scrofe, nonché 35 alveari106.
Rilievi particolari sulle filande di seta, evidentemente importanti in città, si possiedono del 1850 e 1858107. Al traguardo del 1850 si può notare che a Udine esistono 586 fornelli per un totale di 101 centri di lavoro. Si tratta quindi di un’attività molto frammentata. Soltanto una filanda conta 38 fornelli, 39 ne hanno 2 e 9 addirittura uno solo. Nel 1858, 672 fornelli risultano concentrati in 31 filande. La citazione dei mestieri sia negli elenchi delle numerazioni civiche sia negli altri documenti induce alla facile considerazione sulla scomparsa inevitabile di alcuni mestieri: dalle incannatrici più volte citate (es. al n. 1138 nell’anno 1809), al fabbricatore di pettini per tessitori del 1876 (n. 1468), al manghinatore del 1809 (n. 55). Il centro si presenta molto vario, con negozi e laboratori di ogni tipo, incorporati nelle case di abitazione. A questo proposito si può ricordare che in Mercatovecchio i battirame (nel 1809 ce ne sono almeno due: uno al n. 762 e uno al n. 764) producono tanto strepito, da sollevare il 25 luglio 1810, le proteste di 28 negozianti, disturbati dal rumore, ma anche preoccupati dalla minaccia rappresentata dalle fucine che sviluppano il calore assai notevole necessario per la fusione dei metalli. Detto per inciso, nell’occasione, il savio Mantica della congregazione municipale risponde spiegando come «non si possa obbligare alcuno a desistere dall’esercizio di un’arte nella propria bottega, mentre non vi è alcun regolamento che confini l’esercizio medesimo piutosto in una o in un’altra situazione dell’abitato». Né miglior accoglienza sembra avere la protesta in prefettura108. Così nel 1832 troviamo ancora un calderaio al n. 765.
Nella storia della città però si era verificato un interessante precedente alcuni secoli prima nei riguardi dei tagliapietra, ai quali sin dal 4 gennaio 1495 era stato proibito condurre pietre e lavorarle davanti alla propria casa: «Ad propositionem ser Leonardi medici procuratoris comunis, deliberatum fuit quod lapicide non debeant tenere lapides in viis publicis impedientes et occupantes vias et porticus domorum, neque laborare lapides extra domos suas sed in domibus suis ita et taliter quod non offendant personis transeuntibus per vias seu porticus»109.
Alcuni anni dopo, il 26 agosto 1513 in ottemperanza al provvedimento del 1495, si era emanato il proclama contro il tagliapietra Filippo110 il quale «prioribus diebus conduci fecit ad domum habitationis suę per plateam novam extructam prope pallatium communis lapides maximi ponderis super curribus non sine maximo detrimento ipsius plateę, quę est magnum ornamentum et decus civitatis»111.
È un dato di fatto che la dominazione francese, seppure complessivamente di breve durata, è quella che maggiormente sconvolge l’ordine prestabilito. Soprattutto nel secondo periodo, dal 1805 al 1809, vengono adottati provvedimenti che cancellano e sovvertono antiche istituzioni e gettano le basi dell’amministrazione secondo un concetto di stato totalmente nuovo. Per l’argomento allo studio assumono particolare importanza la soppressione delle corporazioni religiose e laiche, con la relativa confisca dei beni, e l’istituzione della commissione d’ornato.
La prima operazione viene effettuata in due tempi, entrambi sotto la dominazione francese: prima col decreto dell’8 giugno 1805, con precisazioni del 6 giugno 1806 e del 25 e 28 luglio 1806, poi col decreto del 25 aprile 1810. Vengono così messi all’asta beni immobili accumulatisi e consolidatisi in secoli di donazioni. Essi verranno riacquistati solo parzialmente in tempi successivi, sotto la dominazione austriaca. Ingegneri e pubblici periti ne tracciano piante, preparano stime particolareggiate, le quali tramandano il volto e indirettamente l’organizzazione di questi complessi che nei secoli precedenti avevano occupato ampi spazi tra le mura della città, ma che avevano anche spiritualmente contato nella vita degli Udinesi. Alcuni speculatori, tra i quali l’accorto francese Gitareau, si affrettano ad acquistare grandi complessi edilizi, chiese, oratori, orti e cortili. Nel giro di pochi anni poi alcuni locali vengono demoliti. È il caso, per esempio, del convento delle poverelle di S. Caterina comprato dai Bertoli, della chiesetta di S. Tommaso, prima acquistata dai Tavellio, poi passata a Giacomo Brunetta (n. 471 A), della chiesa di S. Bartolomeo (n. 1827), comprata da G.B. Armellini e di quella di S. Croce (A.S.U., C.N., 179/1811/I, 6577 Orn. XIX, con dis.), finita in proprietà di Antonio Basina (n. 43). L’Archivio Comunale Napoleonico e gli Austriaci I e II oggi ci restituiscono l’immagine della facciata di alcuni di questi edifici e, nei casi fortunati, lo stato e il grado compilati per la vendita.
Anche il patrimonio dei mobili in breve tempo viene disperso senza lasciare quasi traccia. A questo proposito lo studio fornisce alcune piste per seguire le vicende di biblioteche e arredamento. Nel 1810, dopo l’avviso a stampa del 25 aprile, tra il 2 e il 10 agosto la direzione del demanio vende «effetti e mobili consistenti in fornimenti, arredi, biancheria, commestibili, combustibile ed altro» dei conventi delle Cappuccine (2 agosto), di S. Bernardino (4 agosto), di S. Chiara (7 agosto), di S. Caterina da Siena (9 agosto) e di S. Agostino (10 agosto)112. Tutte le campane sono vendute in blocco ad Antonio Belgrado113. All’asta non finiscono solo i beni delle corporazioni religiose soppresse. In quegli anni, infatti, oberati da imposizioni ordinarie e straordinarie, molti proprietari piccoli e grandi, per le note vicende, si trovano nell’impossibilità di pagare in tempo le imposte. In tal modo, soprattutto fra il 1809 e il 1814, vengono messi all’asta immobili, interi o a frazioni, anche a causa di cifre minime. Talvolta può trattarsi di persone che non dispongono di somme liquide al momento, benché la cifra sia molto bassa, come nel 1814 per la casa n. 81, per la quale il debito è di L 3,17, oppure, nel 1812, per la casa 2036 che richiede una imposta di L 2,89. Antonio Antivari dovrebbe pagare solo L 1,72, una delle somme più basse riscontrate nelle liste dei debitori, quando si fa mettere all’asta una stanza a pian terreno della casa n. 713 «serviente ad uso di bottega di ottonaio»114.
A prescindere dalla esazione tributaria, che, com’è naturale, non può essere gradita ad alcuno, la nuova amministrazione s’impone anche per una serie di provvedimenti in rapida successione, che appaiono suggeriti da criteri di pubblica utilità. Già l’art. 33 del decreto del 20 maggio 1806 prescrive tra l’altro: «Nel caso qualche fabbricato minacciasse rovina, la municipalità ordina la riparazione ed il proprietario è obbligato di eseguirla immediatamente, altrimenti viene eseguita ex officio e a spese del proprietario». Non si tratta ovviamente di una novità in una città che da secoli è amministrata da persone responsabili che di volta in volta hanno provveduto a eliminare le cause del pericolo. Basterebbe ricordare a titolo esemplificativo un passo degli Annales del 6 febbraio 1577: «Multa verba facta fuerunt de domibus ruinosis burgi S. Christophori, quæ in dies magis atque magis corruunt. Nimirum si domus ipse in eodem turpissimo statu iacere permittantur, aliis quoque domibus annexis certissime impendere ruinam et frustra magnificam communitatem nostram tot sumptus fecisse ut licite de consensu Serenissimi Dominii exequutioni mitteretur quantum alias in ea ipsa re fuit deliberatum. Proinde dd. deputati infrascriptam partem tulerunt: che atteso che non è comparso alcun compratore delle case ruinose di borgo di S. Christofforo mentre si sono incantate sia data aothorità alli deputati di provedere che esse siano restaurate »115. Ugualmente il 23 marzo 1659 dal verbale del consiglio della città: «Molte case si ritrovano in diverse contrade de’ borghi più cospicui di questa città del tutto ruinose et cadenti. Per proveder con propria deliberatione conforme a quanto s’è altre volte praticato, onde non restino deturpate le medesime contrade de’ borghi, che sia supplicato il serenissimo nostro prencipe di poter far intimatione a padroni così dell’utile come del diretto dominio de’ siti ruinosi posti in questa città che nel termine d’un anno dal giorno dell’intimatione debbano haver riparato o riedificato »116. La novità sta nella promulgazione di una legge che prevede la possibilità di un pericolo e che contemporaneamente affida a un organo responsabile la prevenzione del medesimo. Fino a questo punto si tratta ancora di una protezione generica offerta al cittadino contro possibili infortuni e di una attribuzione precisa di responsabilità in merito.
La nuova amministrazione però abbastanza presto si preoccupa del decoro dei centri urbani. Con il decreto del 9 gennaio 1807 per l’istituzione della commissione d’ornato si instaura un vero e proprio organo di controllo che condizionerà il gusto e l’attività edilizia della città.
La commissione ha una funzione consultiva ed è formata da cinque membri (art. II) che prestano la loro opera gratuitamente (art. III). Farne parte è un onore117.
La commissione d’ornato «esercita la vigilanza su tutte le fabbriche private in costruzione e costruibili e modificabili; esige dai proprietari e dai capi mastri l’ostensione della licenza municipale» (art. VIII, 53).
Nel periodo austriaco si chiamerà “deputazione d’ornato” A Udine, da una comunicazione da questa indirizzata al podestà in data 15 giugno 1815118, sappiamo che fino a quel momento essa non dispone di una sede fissa e che nel frattempo si è riunita in casa del membro Luigi Pasini. I deputati G.B. Bartolini ed Ettore Antonini giudicano ciò «disdicevole» e chiedono una sede adeguata nel palazzo comunale o nel luogo in cui la congregazione stessa vorrà. In seguito a reiterate domande, la deputazione ancora il 22 marzo 1827 si ritrova a chiedere l’assegnazione della stanza, promessa e mai realmente assegnata, nel locale municipale al piano superiore di fronte al Corpo di guardia119. Dopo un’ultima richiesta del 22 febbraio 1828, la sede viene accordata il 25 dello stesso mese presso l’edificio n. 793.
Nonostante la deputazione d’ornato disponga solo così tardi di una sede propria, si può tuttavia affermare che la sua opera è già al quanto utile all’autorità municipale: le sue considerazioni, i giudizi, i consigli vengono puntualmente accettati e ripresi alla lettera dal podestà nella evasione delle pratiche edilizie. Questa fiducia nella commissione di tecnici o persone ritenute tali dall’autorità, assume quindi un ruolo sempre più importante, perfino determinante nella trasformazione della città, edificio per edificio. I permessi di costruzione o di restauro passano al filtro di persone, i cui suggerimenti cancellano gradatamente il volto antico delle case imponendo criteri di simmetria (A.S.U., C.A. I, 35/1820/V, 5298 Orn. II C, con dis.), abolendo gli archi a porte e finestre con interventi che si collocano lungo tutta la prima metà del secolo120.
Si impongono perfino le tinte e si additano modelli da eseguire, facendo sostituire la pietra al cotto negli stipiti di porte e finestre. La linea e la struttura vengono severamente controllate. Nel 1837 al portone dell’orto di Domenico Costantini, presso la Vigna la deputazione suggerisce di aumentare di due il numero delle bugne per ogni stipite. Nello stesso anno anche G.B. Sutto deve sottoporre alla deputazione il progetto per l’orto contermine al n. 1134, progetto cui vengono apportate modifiche.
Sempre sulla linea dei cambiamenti, il cornicione si sostituisce alla nuda gronda. A questo proposito in varie occasioni si addita come modello quello della casa n. 627 di via Poscolle. Così avviene nel 1825 per le case 718 (A.S.U., C.A. I, 182/1831/V, 866 Orn. II C, con dis.), 1511, 1512.
Esiste un prototipo anche per le cornici di legno che si vanno apponendo sopra le porte e le finestre delle botteghe. La deputazione d’ornato indica come modello quello delle botteghe che si trovano al pianterreno del palazzo comunale e raccomanda che siano debitamente colorite ad olio, come per la casa n. 720121. Viene altresì imposta la soffittatura dei sottoportici (n. 1547, 5 aprile 1822). Si tollerano eccezioni per immobili non in vista (n. 1374, 12 febbraio 1842). Certo che appare viva anche la preoccupazione circa la destinazione dell’immobile n. 1177-1178 dei Cantoni (29 agosto 1839). Ma non si risparmiano sarcasmi sull’abuso di potere di Caimo Dragoni per l’apertura di una finestra, senza la debita autorizzazione, nel palazzo n. 1664 in piazza Contarena. Forse per questo motivo nel 1852 Luigi Pelosi facente funzione di podestà, presenta diligentemente il progetto per la riforma delle finestre nella facciata della sua casa al n. 732 e la deputazione d’ornato la giudica lodevole.
Anche la tinteggiatura esterna è importante: prevalgono il bianco, soprattutto nei primi anni, come per la casa n. 794 in data 16 giugno 1815, e la tinta «aurora», mentre le finestre saranno «verde imperiale». Vedasi al riguardo la notizia segnalata per esempio al n. 1333 in data 14 ottobre 1826.
Viene spontaneo domandarsi a questo punto chi siano a Udine le persone che possono esprimere il loro parere con tanta libertà e autorevolezza. I primi sono G.B. Bartolini ed Ettore Antonini, che ci riportano ad ambiente di famiglie udinesi di prestigio soprattutto per la loro tradizione culturale, accanto ai quali si colloca anche un commesso aggiunto agli Ornati, che è il capomastro Giuseppe Presani o Prisani122. Nel 1820 per la prima volta si precisa che tra i nuovi tre membri eletti vi sono due «architetti», ossia Francesco Bernardinis e Valentino Presani, ai quali viene affiancato il march. Giuseppe Mangilli. Costui e i due membri già in carica Bartolini e Antonini, secondo lo spirito del decreto napoleonico, sono definiti «cittadini intelligenti» (art. II «cittadini intelligenti di architettura»123. Valentino Presani, il cui nome compare già nell’ispezione compiuta il 15 luglio 1820 per la casa n. 429, contemporaneamente esercita la libera professione, della quale lascia tracce appunto nella documentazione dell’Ornato. Per esempio il 29 gennaio 1822 firma il progetto di riforma delle finestre del pianterreno nella casa Turchetti al n. 1623 in Mercatovecchio, e nello stesso anno quello per la casa n. 1291. A poco a poco subentreranno in tale organismo persone qualificate anche agli occhi della cittadinanza. Una di queste sarà G.B. Bassi, che vergherà di mano propria molti commenti ai progetti. Figure notevoli si susseguiranno nell’arco del secolo. Basterebbe aggiungere ai citati i nomi di Antonio Lavagnolo e di Andrea Scala, per motivi diversi importanti nella storia dell’edilizia ottocentesca udinese. E già questo sarebbe sufficiente a delineare l’evoluzione dell’istituto, che va affinando i sistemi, accogliendo veri e propri tecnici e apprezzati architetti. La storia della deputazione d’ornato per Udine dovrebbe tener conto di tutti questi personaggi, delle opere e del prestigio che, meritatamente o no, essi godettero presso i contemporanei. A rendere più incisiva l’opera di questa istituzione giunge un provvedimento comunale del 1 settembre 1821, firmato dal podestà Garzolini, che crea un autentico terremoto presso tutte le botteghe della città. Analogamente a quanto avvenuto a Venezia, Padova e Verona, infatti, si pubblicano 14 articoli che tendono ad abolire irregolarità e corpi sporgenti sulla strada. Gli stipiti dovranno essere di pietra «o di legno forte dipinto ad oglio ad imitazione della pietra» (art. I, a). Immediatamente la deputazione consiglierà gli Udinesi in questo senso, come si può constatare nella casa Asquini al n. 74.
Col trascorrere del tempo la deputazione diverrà sempre più esigente e il 28 aprile 1865, per esempio, ad Antonio Fasser, proprietario della casa n. 973, prescriverà che «la finta porta debba essere contornata di pietra come la vera e che nel vano venga dipinta l’imposta come se realmente esistesse». Il provvedimento del 1821 impone anche di soffittare il cielo dei porticati (art. I, e). I frontisti inoltre sono tenuti ad occuparsi della sistemazione e manutenzione dei marciapiedi (art. I, h). Verranno rimossi tutti i letamai e scolatoi che sgorgano sulla strada (art. II, k), come stabilito dal provvedimento sanitario del 20 maggio 1807, provvedimento non evidentemente abbastanza osservato, se il reggente del liceo il 15 febbraio 1812 aveva sporto una regolare denuncia perché non si era eliminato un letamaio esistente nonostante i regolamenti124. Per facilitare l’igiene e la pulizia, tutte le strade dovranno restare sgombre (art. II, e). Molti venditori, che sistemano quotidianamente le loro mercanzie sotto i portici delle vie e in Mercatonuovo, improvvisamente si sentono smarriti e cominciano a chiedere l’esenzione dal provvedimento. Tra le domande pervenute nella documentazione relativa restano tracce di storie patetiche, che tali dovevano apparire anche alle autorità comunali, se a volte concedevano qualche eccezione. Esse invece si dimostrano in genere inflessibili coi bottegai, i quali avrebbero potuto esporre la loro merce solo all’interno dei loro negozi.
Il provvedimento del 1821 si riferisce anche alle insegne, che «dovranno essere fitte in muro sopra la imposta superiore del locale in esercizio, restando inibita ogni esposizione pendente» (art. II, m). Inoltre «li così detti lindaroli, sopraposti alle botteghe, non saranno permessi che nelle contrade, più ampie e di forma decente, collocati all’altezza di quattro metri dal piano della strada» (art. IX). «Per l’occupazione esterna delle botteghe sotto li portici e sulle strade con panchi, oggetti di commercio ed articoli di vettovaglie», si incorrerà nella pena della confisca degli articoli (art. XII).
Il provvedimento sarà perfezionato dopo un’aggiunta del 13 gennaio 1836, dal decreto delegatizio del 13 agosto 1846, che ordina la rimozione di tutti i depositi di qualsiasi natura esistenti lungo le strade ed aderenti alle fronti stradali qualunque ne sia la posizione. È chiaro in ogni modo che il controllo da parte della deputazione è limitato alle facciate o quanto meno alle parti di fabbricati prospicienti le strade. Tanto è vero che 1’8 marzo 1865 si respinge una pratica di Antonio Fasser, perché la competenza della deputazione è limitata alle «fronti dei fabbricati soltanto prospicenti le pubbliche strade»125. In compenso le strade e le parti in vista sono tenute costantemente sotto controllo. Così il 23 agosto 1841 si respinge la domanda di Giovanni Frezzo, il quale chiede di «costruire una baracca di legname a ponente del ponte di Poscolle al lato di tramontana, ad uso di vendere ferramenta vecchia»126. Quando i privati protestano, la deputazione risponde garbatamente, senza cercare di oltrepassare le proprie competenze. In una polemica a proposito della casa n. 446, di proprietà Romano, il 16 settembre 1832 essa precisa: «La scrivente deputazione non induce a migliorare i progetti che si propongono se non per forza di evidenti ragioni ed insinuazioni blande e miti. Si fa essa scrupolo di tendere allo scopo del suo istituto con moderazione, consigliando non ordinando, persuadendo non obbligando, dacché gli sta bene a cuore il crescente abbellimento di questa città, ma più assai il santo dovere di non oltrepassare i limiti delle sue attribuzioni»127.
I poteri della commissione non sembrano subire flessioni nel tempo. Quando nell’aprile 1844 l’ingegnere municipale A. Lavagnolo, a nome della deputazione d’ornato, denuncia i cambiamenti operati senza autorizzazione al n. 734 dal capomastro Quaino, il responsabile viene convocato nella giornata stessa dall’autorità municipale e precettato «all’immediata desistenza».
In ogni modo il 4 settembre 1850 i deputati chiedono alla congregazione municipale di studiare meglio la sfera delle possibili attribuzioni previste dai regolamenti di altre città, specie Milano. Il podestà Caimo Dragoni ne chiede immediatamente copia alle congregazioni municipali di Milano, Mantova, Venezia, Brescia, Verona, Bergamo, Vicenza, Padova e Treviso128. Una delle preoccupazioni della deputazione è la redazione di una carta topografica aggiornata delle città. Allo scopo si incarica Paolo Follini, il quale viene regolarmente saldato per l’opera compiuta129. Essa tuttavia non è stata finora rintracciata. Ci sono nondimento pervenuti altri disegni di singole zone, come il rilievo della calle Bellona, compiuto dall’ing. Valentino Presani nel 1825130 e ancora del Presani, in data 30 maggio 1828, la pianta della contrada di via Treppo colla «tabella delle calcolazioni per l’acciotolato»131, la topografia della zona degli orti e delle case fra la Porta Pracchiuso e quella Ronchi, del 1819, opera dell’ing. Francesco Bernardinis132.
La deputazione d’ornato si occupa pure della sistemazione del Giardino, dove già nel secolo precedente l’amministrazione comunale aveva cercato di dare un ordine e aveva fatto piantare i gelsi (ducali del 27 marzo 1740 e proclama del 25 aprile 1758). Anche Lucrezio Palladio aveva segnalato l’importanza dell’avvenimento133. Con una comunicazione dell’8 luglio 1819, si denuncia lo stato di abbandono della zona e si sottolinea l’urgenza di porvi rimedio134. Seguono vari provvedimenti della congregazione municipale, il più importante dei quali, in stretta relazione con la storia delle case, risulta essere l’obbligo di trasportare in Giardino le macerie estratte dai fabbricati. Caso per caso, secondo l’entità del lavoro, la deputazione prescrive il volume ossia il numero dei carri di macerie da destinare al Giardino, le cui depressioni sono quindi state colmate con questo tipo di materiale eterogeneo proveniente dai quattro punti cardinali della città. Solo in casi sporadici se ne ordina lo scarico nelle fosse fuori Porta Poscolle, nel 1855135 e nei Gorghi presso il ponte136.
Nello stesso 1855 però si continua a far convergere le macerie verso il Giardino137.
Certo è che, nonostante i lavori in corso, esso viene ugualmente impiegato, com’è noto, per le corse dei cavalli e per gli spettacoli popolari, dalle esibizioni ginniche, alle esposizioni di animali meccanici mossi da macchine a vapore, ai giochi con il pallone, come testimoniano le richieste del 17 settembre 1812138 e ancora dell’8 febbraio 1850139.
Nel periodo 1824-1825 si effettuano vendite di fondi pubblici il cui ricavato è devoluto a favore dei lavori di sistemazione del colle del Giardino140. Il custode avrà un regolamento, la cui bozza è trasmessa dalla deputazione d’ornato alla congregazione municipale il 14 marzo 1825.
Un altro campo d’impegno per la commissione d’ornato si apre con l’art. 7 del decreto 9 gennaio 1807, grazie al quale possediamo una documentazione grafica della facciata di parecchi edifici riformati o ricostruiti nell’Ottocento. L’articolo detta: «Ogni possessore che vuole intraprendere riparazioni od innalzamenti dei muri fronteggianti le strade, presenta prima alla municipalità il disegno delle opere da eseguirsi. La municipalità ne rimette l’esame alla commissione e dietro il voto della medesima, procede alla relativa deliberazione».
In base ai requisiti che via via si esigono per i progetti, dalla documentazione dell’Ornato emergono dati che mettono in luce aspetti nuovi dell’attività di alcuni personaggi udinesi impegnati nell’edilizia ottocentesca cittadina. Con gli apporti della presente ricerca si possono meglio delineare le personalità di Giuseppe Zandigiacomo, di Michele Zuliani Lessani e dello stesso Valentino Presani; assumono maggior consistenza le figure degli ingegneri Bernardinis, Cotterli, Duodo, Fantoni, Lavagnolo, Locatelli, Malvolti e Stratico; vengono valorizzate anche le figure di capomastri quali Andreoli, Brida, i Periotti e Salvador.
Attraverso la collazione dei documenti sparsi è possibile ricostruire la genealogia e arricchire il catalogo delle opere di generazioni di artisti che hanno lasciato una lunga traccia nell’arte e nell’artigianato friulano, quali gli Andreoli, i Periotti, i Picco, i Presani, i Prodoloni.
Nei documenti più antichi risultano scarsi i nomi degli architetti direttamente impegnati nei lavori. Qualche elemento nuovo arricchisce la biografia di Pietr’Antonio Navarra e di Francesco Floreanis. Nei rogiti dei protocolli spogliati sistematicamente si sono trovati molti nomi di magistri muratores o di capimastri, quasi mai citati però in relazione a qualche loro opera.
L’Ottocento invece, anche a causa del controllo che la nuova amministrazione esercita sull’attività privata, ci trasmette un nutrito elenco di tecnici con diverse mansioni e a diversi livelli impegnati nel settore edilizio, dagli ingegneri e architetti ai capomastri e ai muratori. La firma che si esige sui disegni costituisce la prima vistosa traccia per risalire agli autori delle opere, proprio a partire dai progetti presentati dopo il 9 gennaio 1809. Il filtro operato dalla commissione d’ornato, in ottemperanza al decreto di quell’anno, solleva le proteste dei periti, categoria di persone che nel disegno tecnico vanta una tradizione notevole. Nell’agosto 1816, su ricorso del perito agrimensore Francesco Pascoli, il quale denuncia che i disegni vengono affidati esclusivamente a ingegneri o architetti civili (e quindi non alle persone della sua categoria), i deputati G.B. Bartolini ed Ettore Antonini scrivono: «Pur tropo vengono prodotti ha questa deputazione dei disegni che non possono chiamarsi tali, e tanto informi, che meriterebbero di essere rigettati, non corrispondendo memomamente all’oggetto; in vista di ciò questa deputazione crede per suo voto che non abbiano ad essere in avenire accetati disegni se prima non siano firmati dal comesso d’ufficio sig. Presani, e ciò per togliere ulteriori incomodi ed incovenienti ed anche perché in ufficio abbia di rimanere un regolare disegno». La questione però il 12 settembre viene ridimensionata in sede ufficiale da parte dell’autorità municipale, la quale precisa che si lascia «libero alle parti» di farsi preparare i progetti da chiunque sia munito di regolare patente141.
L’autorità si fa nuovamente sentire in materia edilizia col decreto delegatizio del 16 dicembre 1834 riguardante l’abuso da parte di alcuni proprietari udinesi nella costruzione di canne fumarie sporgenti sulla pubblica strada, le quali sono «non solo d’incomodo agli passanti, ma possono talvolta diventare pericolose». La congregazione municipale è incaricata di occuparsene e di mantenere in vigore il provvedimento. La disposizione si rende indispensabile dopo tutta una serie d’interventi anche della deputazione d’ornato, che secondo le sue competenze si preoccupa del decoro. Per esempio, alla richiesta di Maddalena Grisoni, del 16 maggio 1815, di aprire uno scarico per un fornello di filanda di seta al n. 1268, il deputato Pasini oppone rifiuto sostenendo che «il caliginoso fumo» sarebbe «d’indecenza e d’incomodo». Nel 1837 il 12 febbraio, coll’avviso n. 729, si precisa che le case di nuova costruzione o anche restaurate o riattate, per essere abitate devono essere sottoposte al controllo preventivo dell’amministrazione che ne verifichi l’abitabilità. Esiste pertanto una fitta documentazione dei tecnici preposti a questo compito. In genere si tratta di lavoro d’ingegneri. Coll’avviso municipale del 30 giugno 1837 n. 3708 diventa obbligatorio affidare la direzione di ogni lavoro edilizio a un architetto “approvato” e ad un esperto capomastro. Ciononostante qualche cittadino sprovveduto, come Maddalena Anziutti142, incorre nell’errore di non presentare le carte in regola e ancora nel 1865 si fa respingere il progetto.
Nel 1811, quindi in periodo di dominazione francese, si organizza un nuovo servizio civile di protezione contro gli incendi. Si crea un gruppo di pompieri e si provvedono gli strumenti all’uopo, ossia «trombe di cuoio» e «buccule d’ottone» per le macchine idrauliche143.
Sempre nel 1811, il 16 gennaio, si stabiliscono norme relative alla ubicazione delle fabbriche rispetto al centro abitato e ne viene indicata una graduatoria di pericolosità. La perizia per la fonderia Broili al n. 1412 il 29 febbraio 1849 vi fa ancora riferimento.
Vale la pena di ricordare infine che la città dispone di un’illuminazione pubblica, realizzata con centocinquanta fanali, per i quali l’appalto del bando di concorso viene pubblicato il 18 settembre 1810144. Si tratta di lumi a olio, che a volte non funzioneranno a dovere, anche perché si userà l’olio di rafano o di ravizzone, che, secondo i lampionai dell’epoca, presenta alcuni inconvenienti rispetto a quello d’oliva. Esiste una curiosa particolare serie di notizie in merito, databili dalla fine di ottobre 1821145.
La documentazione ottocentesca in sostanza dimostra l’esistenza di un’amministrazione pubblica molto efficiente, anche se a volte questa dà l’impressione di limitare la libertà e l’iniziativa di singoli cittadini. La frequenza, la sistematicità dei provvedimenti e la creazione di strutture adeguate a sostenere la nuova organizzazione fanno dedurre che ormai è cambiato il rapporto fra il cittadino e lo stato, perché di questo è subentrata una nuova concezione.
Si può quindi concludere che, ancor prima dell’avvento del Regno d’Italia, Udine entra in un meccanismo burocratico nuovo, il quale perfeziona istituzioni o tendenze già esistenti nell’amministrazione veneta, ma soprattutto, in una prospettiva diversa, intensifica, moltiplica, sistema i provvedimenti in un inquadramento che sarà poi accettato e assimilato dall’ordinamento del ‘66.
Vittoria Masutti
1 Annales, XIV, f. 320r.
2 A.S.U., C.A., 14.
3 Annales, LII, f. 180v.
4 Annales, XXV, f. 3v.
5 Annales, XXVI, f. 232v e 352v.
6 A.C.U., A.A.O., Libro generale livelli, f. 6r.
7 A.S.U., N., Giulio Bonecco, 7861, III instr., f. 8v-9r.
8 A.S.U., C.R.S., 546, Rot. 390, Istr. e test., 163r-164v.
9 A.S.U., N., Giovanni Giuseppe Clochiatti, 4839, 6672.
10 A.S.U., C.A.I., 182/V, 4871 Orn. II C.
11 A.S.U., N., Antonio Tarondi, 7622, Istr. 1660-1672, f. 277r-277v.
12 A.S.U., N., Pitta, 5118, Vacch. istr. 1299, f. 17v-18r.
13 Annales, III, f. 48r.
14 A.S.U., Arch. Caimo, 9, Causa langoriarum.
15 A.S.U., N., Giovanni di Codroipo, 5163, Vacch. istr. 1423-1429, f. 40r, rogito del 2 marzo 1430.
16 A.S.U., N., Giovanni del fu Tommaso, 5150, Vacch. istr. 1429-1432, f. 44r, rogito del 1 luglio 1429.
17 Acta, I, f. 101v-102r.
18 Annales, XLI, f. 267v.
19 Annales, XLI, f. 2v.
20 Annales, XVI, f. 318r.
21 A.S.U., N., Mario Albino, Istr. 1558, f. 36r.
22 Annales, XXXVI, f. 96r.
23 B.C.U., ms. P XIX, fasc. Compra all’incanto dela casa et Porton di Poscolle da d. Tranquilla q. m. Partho Arrigon. Francesco Togna.
24 Annales, LIV, f. 245v-246r.
25 Annales, XXXIX, f. 61r-61v.
26 Annales, XLII, f. 135v.
27 Annales, V, f. 106r, in data 23 dicembre.
28 Annales, LIV, f. 245v-246r.
29 A.S.U., C.A., 84/7.
30 Annales, I, f. 431r e 433r.
31 Annales, XXV, f. 1v.
32 Annales, XVI, f. 168v-169r.
33 Annales, XXX, f. 310r-310v.
34 Annales, XXXVII, f. 252v-253r.
35 Annales, XV, f. 219v.
36 Annales, LII, f. 92r.
37 A.S.U., N., Roberto da Latisana, 5341, XII istr., f. 16r-17r.
38 A.S.U., N., 5341, XII istr., f. 27v.
39 A.S.U., C.R.S., 576/1, f. 14v.
40 Vedasi n. 729.
41 Acta, LIV, f. 58v.
42 Acta, II, f. 22v.
43 Vedasi A.S.U., Archivio del Torso, b. 15 man. 2333 Norme per la costruzione di stufe alla friulana.
44 della PORTA, Toponomastica, 47.
45 A.A.O., Cattastico... 1753, f. 301v.
46 Annales, XIV, f. 461r.
47 Annales, LV, f. 65r.
48 A.S.U., N., Nicolò Aloi, 8108, V instr., f. 64r.
49 A.S.U., N., Mario Albino, 5949, Istr. 1547, f. 1r-1v.
50 B.C.U., ms. A. XI, f. 156v.
51 1404, marzo 15: Annales, XV, f. 222r.
52 A.S.U., Arch. Bertoli, 31, Susanna, p. 27-30.
53 Annales, XV, f. 55v.
54 Annales, XV, f. 73v.
55 A.S.U., Arch. Confraternita dei Calzolai, 459, Catastico Gallafà, f. 86v-87r.
56 A.S.U., C.A., 87/3, 30.
57 Annales, XVI, f. 232v.
58 Toponomastica, 136-137.
59 Annales, XVI, f. 167r.
60 A.S.U., N., Giovanni Francesco Lucio, 6214, XII instr., f. 10v-11r.
61 Annales, XIV, f. 10r.
62 A.S.U., N., Roberto da Latisana, 5341, V instr., f. 10r.
63 Annales, LXXVIII, f. 193v.
64 Annales, IC, f. 175v-176v.
65 A.S.U., C.A., 14/50.
66 Acta, II, f. 17v.
67 Il 15 aprile, citato da A.S.U., N., Giovanni Missulini, 5150, Prot. istr. 1410, f. 12r.
68 Il 21 aprile, A.S.U., N., Giovanni Missulini, 5150, Prot. istr. 1410, f. 15r.
69 A.S.U., N., Tommaso Ronconi, 5150, Istr. 1416, f. 2r.
70 B.C.U., ms. Collez. ex Osp., F, f. 129r.
71 Annales, XV, f. 234v.
72 Annales, XV, f. 243r.
73 Parti prese... 1880, 263.
74 Annales, XIV, f. 430r.
75 A.S.U., N., Gaspare Agricola, 7730, filza, Stima, f. 1v.
76 Ibid.
77 A.S.U., N., Rocco Carminati, 7984, Stima... Rosa e Ronchi, f. 2v e 3v.
78 A.S.U., N., Gaspare Agricola, 7730, filza.
79 A.S.U., Arch. Liruti, Istrumenti e private scritture riguardanti acquisti, vendite, locazioni, stipulati dai Liruti in Udine, fasc. 3, Carte per l’acquisto della casa Beltrame sulla Riva del Giardino.
80 A.S.U., N., Antonio Lorio, 10425, 44, alleg. al rogito.
81 B.C.U., Arch. Torriani, 32.
82 A.S.U., N., Riccardo del fu Andrea Paderni, 10030.
83 A.S.U., Arch. Caimo, 10, Stima alleg. al contratto di compravendita del 10 ottobre 1626 fra Savorgnan e Caimo.
84 A.S.U., N., Cristoforo Orgnano, 7877, filza prodotte.
85 A.S.U., N., Vincenzo Bertoldi, 8596, Allibramento Ottelio, f. 62r.
86 A.S.U., N., Nicolò Aloi, 8109, X istr., f. 23v-27r.
87 A.S.U., N., Francesco Tracanelli, Allibramento Moro, p. 81-106.
88 A.S.U., N., Giovanni Bertoldi. 10566, 58, alleg. all’atto di vendita.
89 A.S.U., N., Rocco Carminati, 7984, Allibramento Conti, f. 80r.
90 A.S.U., N., Nicolò Cassacco, 10594, 1248.
91 B.C.U., vacch. per. anon. n. 76.
92 A.S.U., N., Rocco Carminati, 7984, Allibramento Conti, f. 15r.
93 A.S.U., N., Rocco Carminati, 7984, Stima... Ronchi e Rosa, f. 20v.
94 A.S.U., Arch. Mantica, 76, Indice.
95 A.C.U., A.A.O., Misc. XI, f. 88v-95v.
96 A.S.U., N., Giovanni Giuseppe Clochiatti, 4836, 5921.
97 A.S.U., N., Nicolò Cassacco, 10583, 36.
98 A.S.U., Arch. Caimo, 106.
99 A.S.U., N., 10074, f. 667r.
100 A.S.U., N., Antonio Cavassi, 9880, XV istr., 915, f. 1408r-1410r.
101 A.S.U., C.A. I, 135/XI.
102 A.S.U., C.A., 20/III, 23.
103 Il della Porta nelle Aggiunte trascrive il testo del verbale della commissione preposta al concorso. Nell’edizione esso è stato inserito in appendice.
104 Udine è proclamata città regia da Francesco I con decreto del 24 aprile 1815, insieme con Milano, Venezia, Mantova, Cremona, Bergamo, Pavia, Lodi, Verona, Vicenza, Padova e Treviso.
105 A.S.U., C.A. I, 328/VIII, 4186 Orn. II C.
106 A.S.U., C.A. I, 18, Prospetto statistiche richieste nel 1818 ai 4 capiquartieri della città.
107 A.S.U., C.A. I, 488, Prospetto delle filande di seta riconosciute attive nel 1850 nel comune di Udine e A.S.U., C.A. II, 648, Prospetto delle filande da seta riconosciute attive nell’anno 1858 in comune di Udine.
108 A.S.U., C.N., 184, Pol..
109 Annales, XXXIX, f. 21r.
110 Acta, VI, f. 188v.
111 Acta, VI, f. 188v.
112 A.S.U., C.N., 79/XXV, 2824 Demanio/25.
113 A.S.U., N., Antonio Lorio, 10422, 373.
114 A.S.U., C.N., 81, Avv. d’asta per mora prediale, IV rata, 1813.
115 Annales, LIX, f. 173v-174r.
116 B.C.U., ms. C. XXXVIII, f. 210r.
117 Ibid.
118 A.S.U., C.N., 180, 4304.
119 A.S.U., C.A. I, 135/XV.
120 Ancora nel 1840 alle case 1391 e 872, A.S.U., C.A. I, 315/VI, 2795 Orn. II C.
121 A.S.U., C.A. I, 135/XI, 3771 Orn. II C.
122 Vedasi la perizia del 2 novembre 1810 per l’arco Bollani, A.S.U., C.N., 178/XIX.
123 A.S.U., C.A. I, 35/V, 180 Orn. II C.
124 A.S.U., C.N., 184 Pol..
125 A.S.U., C.A. I, 780, 1724 Orn. IX.
126 A.S.U., C.A.I, 328/VIII, 5508 Orn. II C.
127 A.S.U., C.N., 193, 1672 Orn. II C.
128 A.S.U., C.A. I, 487/VI, 5470 Orn. II C.
129 A.S.U., C.A. I, 100, 1825/I, Provvidenze generali, verbale della seduta del 4 marzo 1825.
130 A.S.U., C.A. I, 148/XV, 2445 Strade e fabbricati.
131 A.S.U., C.A. I, 148/XV.
132 A.S.U., C.A. I, 24/X.
133 Cronaca, B.C.U., ms. 642, p. 267-268.
134 A.S.U., C.A. I, 24, 58.
135 Per esempio per la casa n. 604.
136 Per esempio per la casa n. 606 nel 1838 e per la casa n. 38 nel 1837.
137 Vedasi per esempio la casa n. 1590.
138 A.S.U., C.N., 184 Pol..
139 A.S.U., C.A. I, 487/VI, Pol. II, 733.
140 Vedasi n. 251, A.S.U., C.A. I, 100, 3845 Orn. II C.
141 A.S.U., C.N., 180, 2121 Orn. 19.
142 A.S.U., C.A. I, 780, 1632 Orn. IX.
143 A.S.U., Arch. Venerio, 1.
144 A.S.U., C.N., 178/XIX Orn..
145 A.S.U., C.A. I, 53/III, 4909 Orn..