In ogni città della Repubblica di Venezia e d’Italia esisteva, dal secolo XII, una distinzione sostanziale tra notai ad instrumenta, abilitati a rogare testamenti e carte relative a negozi privati e notai ad acta che, soli, potevano scrivere gli atti giudiziari e pubblici e perciò esercitare tutti gli uffici comunali. Pur potendo rogare, i notai ad acta avevano fatto degli uffici pubblici la loro vera e unica professione e costituivano il nucleo di professionisti che diede impulso alla creazione dei collegi notarili1.
Il caso del collegio notarile udinese si discosta in parte dal quadro sopra descritto in primo luogo perché, in quella che altrove fu l’età comunale, in città non esisteva ancora una vera e propria corporazione di notai ma una “fraterna”, un’associazione laica con finalità assistenziali e devozionali prima che professionali. La città di Udine era certamente dotata fin dalla metà del Trecento di un testo ufficiale del proprio diritto municipale e di un proprio ordinamento interno; altrettanto certamente gli uffici comunali necessitavano di notai per il funzionamento sia dell’apparato amministrativo che di quello giudiziario. A questi fini l’assemblea popolare dell’Arengo e il più ristretto Consiglio eleggevano un certo numero di notai con incarico a termine. La fraterna dei notai non veniva citata dallo statuto come titolare di alcun diritto su queste cariche; vi si ricordava, invece, l’esistenza di un gruppo di notai terigene et non forenses che, previo un esame condotto da altri colleghi esperti nell’arte, ogni tre o quattro mesi sarebbero stati adibiti all’ufficio giudiziario del capitano (competente nel criminale minore e nei giudizi civili in prima istanza)2. La prima citazione ufficiale della fraterna dei notai si trova nelle deliberazioni del comune di Udine del 1350 e riguarda il secondo e praticamente ultimo degli ambiti nei quali si mantenne, fino alla fine dell’età moderna, il rapporto tra il ceto notarile cittadino e la municipalità; si tratta del controllo sugli archivi dei notai defunti e delle azioni poste in essere dalla città per evitarne la dispersione. Il prior notariorum … cum aliquibus … de melioribus tra i notai erano di volta in volta incaricati di esaminare il professionista che aspirasse ad avere la gestione delle carte di un collega defunto, prima di ottenerla per investitura comunale3.
Come era solita fare nei confronti delle terre e città sottomesse, Venezia riconobbe la vigenza di ogni singolo statuto e diritto feudale esistente in Friuli al momento della dedizione (1420), pur assicurando a se stessa il supremo controllo attraverso la figura del luogotenente, rettore delegato a sovrintendere sull’amministrazione di tutta la Patria del Friuli il quale, a sua volta, aveva il diritto di nominare i vertici delle amministrazioni e giurisdizioni locali: capitani e gastaldi4.
Il patto tra Udine e Venezia prevedeva che alla corte cittadina del capitano continuasse a spettare la giurisdizione nel civile in primo grado e nel criminale minore. La corte del luogotenente era invece competente nell’appello dei processi civili giudicati dal capitano in primo grado e nel criminale maggiore.
A livello più generale e nella consolidata prospettiva di un mantenimento delle antiche consuetudini, la Serenissima riconosceva l’esistenza di una continuità tra la cancelleria del patriarca e quella del luogotenente e fu su questo punto che la fraterna dei notai udinesi poté fare leva per giungere al nuovo status di collegio notarile.
Le Costituzioni della Patria del Friuli del 1366 prevedevano distinte modalità di abilitazione all’esercizio del notariato tout court e a quello presso la curia patriarcale. Era dunque anche qui distinto il ruolo dei notai ad instrumenta (tra l’altro sottoposti alla vigilanza dei vicedomini) da quello dei notai ad acta. Questi ultimi non costituivano una categoria particolare, esercitavano anche la libera professione e non risulta che tra loro si fosse costituita una forma associativa di tipo corporativo. Esisteva però una consuetudine, attestata da un decreto del 1410 del patriarca Antonio da Ponte, in base alla quale il numero dei notai assegnati alle occorrenze della cancelleria in spiritualibus risultava essere prestabilito e chiuso5. Il decreto, che tenne sempre un posto d’onore tra i documenti del collegio notarile, entrò in gioco in una causa sorta nel 1425 tra il cancelliere del luogotenente veneziano e la città di Udine per un tentativo di ingerenza del primo nelle cause spettanti al giudizio del capitano. Il governo veneziano si espresse in favore della città a proposito della competenza sulle cause oggetto del contendere e nel contempo riconobbe l’esistenza di una consuetudine relativa al numero chiuso dei notai richiamandosi a quel decreto patriarcale6. La lettera ducale di Francesco Foscari (19 giugno 1425) ed il successivo proclama luogotenenziale di Santo Venier (4 novembre 1426) emanati in questa circostanza diedero occasione ai notai udinesi di proporsi come legittimi eredi di quelli autorizzati ad esercitare presso la curia patriarcale e fu probabilmente su questa base che si iniziò a lavorare per il riconoscimento dello statuto del collegio7. Certo l’azione non fu immediata ed è difficile dire le ragioni per le quali solo oltre cinque decenni più tardi si giunse alla redazione di un testo che i notai Bartolomeo Mastino, Antonio di Daniele e Nicolò della Fornace presentarono alla Convocazione di Udine nel luglio 1481. Un certo peso dovette esercitarlo il clima politico del primo cinquantennio di appartenenza alla Repubblica di Venezia. Furono decenni durante i quali la Serenissima attuò il rispetto praticamente letterale dei privilegi e dei patti di dedizione, mirando al mantenimento di un equilibrio stabilito negli anni immediatamente successivi all’inizio del suo dominio, nel quale non era contemplato uno specifico ruolo per l’associazione dei notai. Del resto, nella stessa Dominante un collegio notarile ancora non esisteva e si dovette aspettare il 1514 per vederne la nascita. L’iter dello statuto durò più di tre anni: la Convocazione fece esaminare il testo da due dottori, prima di votarlo nel novembre 1483; le approvazioni del luogotenente Luca Mauro e del doge Giovanni Mocenigo giunsero rispettivamente il 20 luglio e il 26 novembre 14848.
La breve introduzione al testo indicava come primaria esigenza del nascente collegio la garanzia di un adeguato livello nella preparazione professionale dei notai. Alcuni elementi e in particolare le norme piuttosto dettagliate relative agli obblighi di assistenza ai notai ammalati e di partecipazione alle esequie dei defunti, suggeriscono che esso potrebbe consistere nella rielaborazione di un complesso di regole scritte appartenenti all’antica fraternitas dei notai e dei dottori giuristi. Non vi si citano nemmeno esplicitamente le riunioni dei notai, ma si parla dell’obbligo di partecipare alla messa mensile nella chiesa di Santa Maria Maddalena ed i membri del sodalizio sono detti confratres e non notarii come sarà nei successivi statuti. I requisiti di ammissione al collegio comprendevano il raggiungimento del ventesimo anno d’età, il possesso della qualifica di notaio e la cittadinanza udinese. Una commissione formata da tre rappresentanti del collegio, dal vicario del luogotenente e da uno dei sette deputati al governo della città avrebbe esaminato i candidati allo scopo di verificarne la preparazione secondo le disposizioni previste dalle Costituzioni della Patria del Friuli.
Il 27 dicembre di ogni anno, giorno dedicato al patrono san Giovanni Evangelista, il collegio si riuniva per il rinnovo delle cariche elettive scegliendo a maggioranza un priore, un cameraro, due consiglieri, un sindaco e nominando due notarii pauperum con l’incarico di scrivere gratuitamente per gli indigenti coinvolti in giudizio presso il capitano o il luogotenente.
Lo statuto conteneva precise prescrizioni in materia di libera professione e di controllo sugli archivi notarili, anche correnti, prevedendo ispezioni agli studi dei notai in attività, sanzioni per le irregolarità verificate e dettando precise norme per la custodia delle scritture dei notai defunti, che non dovevano in nessun caso essere affidate a persone prive della qualifica notarile, seppure legittimi eredi.
Ai notai del collegio erano teoricamente riservate in via esclusiva tutte le attività riferibili all’arte nella terra di Udine. Fatta eccezione per il cancelliere del luogotenente, nessuno avrebbe potuto in città rogare istrumenti o testamenti né scrivere atti giudiziari. Nella pratica però la situazione era più complessa e sul terreno del rapporto tra istituzioni cittadine e collegio notarile si giocava, in Udine come in tutte le città della Terraferma veneziana, una partita che riguardava il ruolo della nuova aristocrazia, formata dai ceti dirigenti delle città, nei quali il principio di nobiltà era imperniato sui concetti di “onore e utilità”, prestigio e guadagno. La via maestra per entrare nei ranghi dell’aristocrazia urbana erano le professioni liberali e in primo luogo il notariato che, conoscendo al suo interno diverse gradazioni di benessere, segnava la linea di confine tra le categorie privilegiate e la grande maggioranza degli appartenenti alle “arti meccaniche”, dei salariati o semplicemente dei poveri9.
Nelle altre città della terraferma veneziana, i collegi notarili si ponevano in situazioni abbastanza diversificate rispetto agli ordinamenti municipali. Due elementi erano, comunque, ricorrenti: la collocazione dei notai tra gli esponenti del ceto popolare e la concezione totalmente patrimoniale che essi esprimevano nei confronti delle cariche comunali. Il collegio di Padova era a questo proposito il più esplicito: il suo statuto del 1419 affermava in modo reciso che tutti gli uffici cittadini richiedenti l’esercizio dell’arte notarile «fratalee nostre sunt»10.
La situazione dei notai udinesi è quasi speculare a quella dei colleghi nelle città venete di tradizione comunale: al momento della dedizione a Venezia molti notai sono pienamente integrati nelle file della classe dirigente cittadina e della nobiltà, ma non possono vantare, come categoria professionale, una posizione di particolare privilegio. Posto che questo non frenò in alcun modo il processo di chiusura del ceto, particolarmente vigoroso nel corso del secolo XVI, il collegio fu costantemente nella necessità di condurre delle azioni legali per mantenere le sue poche prerogative rispetto agli uffici pubblici.
Di fatto, oltre a quelli previsti presso la corte giudiziaria del capitano, il collegio non ottenne mai alcuna riserva di posti dal governo della città di Udine. Certo, la cancelleria della città e molti altri uffici richiedevano la presenza di un notaio e molti notai del collegio ricoprirono tali cariche, ma lo fecero dopo aver superato la selezione prevista dallo statuto municipale e non per diritto derivante dall’appartenenza al collegio. Non solo, pur essendo i cancellieri della città tutti notai collegiati, diversi fra loro ottennero l’aggregazione al collegio dopo aver retto la cancelleria, anche per lungo tempo.
Non facili furono i rapporti tra il collegio e il cancelliere pretorio della corte luogotenenziale ed ancor più difficili quelli coi coadiutori di quest’ultimo. Praticamente per tutto l’arco della sua esistenza il collegio fu impegnato in controversie con queste importanti figure dell’apparato burocratico giudiziario nel corso delle quali, a fatica, riuscì a trovare una progressiva definizione delle proprie competenze. Del resto, la contesa tra notai e cancelliere pretorio era questione antica e, pur prendendo le mosse da rapporti di forza differenti, riguardava tutte le città della Terraferma11.
Tre importanti riforme nell’ordinamento statutario furono portate a termine nel corso del XVI secolo; le prime due vennero ispirate dalla figura del notaio Antonio Belloni (1480-1554) più volte priore del collegio e ben noto per essere stato anche cancelliere del patriarca di Aquileia, giurista, umanista, erudito, diplomatico ed abilissimo calligrafo12. Nel 1508 fu per la prima volta stabilito il numero chiuso nel collegio deliberando che quaranta notai erano da ritenersi sufficienti alle necessità della città; si tentò anche di assegnare un diritto di precedenza ai parenti dei notai per i nuovi ingressi nel collegio, ma questa parte fu poi ritirata per le reazioni negative del governo cittadino13.
Trascorsero due decenni durante i quali il Friuli conobbe i drammatici eventi connessi alla guerra della lega di Cambrai, alle stragi del 1511 e alla fine del predominio dei Savorgnan sulla citta di Udine dove la riconquista veneziana si tradusse in una riforma oligarchica del Consiglio con abolizione dell’Arengo. Poco dopo, tra 1518 e 1522, si procedette, per mezzo della matricola della nobiltà udinese, alla formale distinzione della nobiltà dal ceto popolare, definitivamente emarginato dal consiglio cittadino14.
Deliberato di mettere mano alla riforma dello statuto nel 1520, nel 1531 il collegio adottò dieci nuovi capitoli statutari che vennero approvati dal doge Andrea Gritti il 26 luglio di quell’anno, assieme al vecchio statuto di cui costituivano un’integrazione. Oltre all’introduzione del numero chiuso, altri punti qualificanti della riforma si riconoscono nell’inasprimento delle regole per l’esame di ammissione e la dettagliata regolamentazione dell’attività presso i tribunali. Fu introdotto l’obbligo di un tirocinio biennale presso la cancelleria del Capitano ed Astanti prima di poter accedere a quella del luogotenente e presso quest’ultima vennero fissate in modo preciso le modalità di turnazione e di divisione dei compensi15. Le restrizioni introdotte da questo statuto avevano suscitato gravi malcontenti tra i notai che non avessero qualche parentela o appoggio personale nel collegio e che quindi vedevano assottigliarsi le possibilità di entrarvi. Il governo cittadino si fece interprete di questo disagio, intenzionato ad allentare una tensione sociale che nel 1541 si era fatta preoccupante. Al termine di un paio di settimane di trattative tra i notai e il Maggior consiglio cittadino, riunitosi alla presenza del luogotenente e con la partecipazione dei Deputati al governo, il collegio da una e il consiglio dall’altra deliberarono sul nuovo assetto della corporazione. Al gruppo dei quaranta collegiati si sarebbero aggiunti dodici notai, comunque abilitati a scrivere determinati tipi di atti presso le corti del luogotenente e del capitano. Rendendosi vacante un posto nel collegio dei “quadragenari” si sarebbe dovuto effettuare la scelta del nuovo membro tra i “duodenari” a loro volta reintegrati in modo da mantenere sempre fisso il numero in entrambi i gruppi. La città revocava l’esclusiva dei notai collegiati sulla scrittura delle cause penali presso la cancelleria degli Astanti; subito prima, però, essi avevano ottenuto il nuovo incarico di registrare nelle vacchette del vicario luogotenenziale i beni pignorati in tutta la Patria del Friuli e destinati alla vendita presso la Camera dei pegni16.
La terza riforma dello statuto fu portata a termine nel 1597 e consistette essenzialmente nell’aggiornamento del testo per abrogarne le norme cadute in desuetudine ed integrarlo con quanto previsto da deliberazioni interne e da provvedimenti di autorità superiori17. Non fu una revisione definitiva.
Nel 1613, il Senato veneziano emanò un decreto col quale poneva fine alla pluralità dei titoli che permettevano di rogare nello stato, prevedendo che l’autorità di creare notai fosse solo della Signoria, che il titolo fosse unico e ugualmente valido entro i confini della Repubblica e a questo fine attribuiva importanti compiti ai collegi notarili18. Fu dunque necessaria una nuova riforma della carta fondamentale, che il collegio udinese portò a termine nel 1617. I testo risultante da questa revisione presenta in modo più organico la struttura del collegio, specificando con maggiore chiarezza le competenze dei notai in seno ai tribunali cittadini e le attribuzioni delle cariche interne inclusa quella, di nuova istituzione, degli examinatores veneta auctoritate nominati annualmente in numero di quattro e destinati a far parte delle commissioni d’esame previste dalla nuova legge per la creazione dei notai19. Questo statuto contiene anche precise disposizioni sull’archivio dei notai defunti che la città aveva istituito in esecuzione del decreto del Senato 29 dicembre 1564 e in prima battuta affidato alla gestione del collegio20.
Nel corso del ‘700 si riproposero in maniera problematica i rapporti tra il collegio notarile e le istituzioni cittadine, con particolare riferimento all’ascrizione dei notai nelle fila della nobiltà e in due diverse occasioni il collegio tentò di imporre la propria prestigiosa autorappresentazione nei confronti del comune di Udine. Dapprima cercò di prescrivere, per gli aspiranti notai collegiati, il possesso di requisiti più severi di quelli stabiliti dalla città per ottenere la cittadinanza esigendo, di fatto, la condizione nobiliare; poi richiese al governo veneziano l’esenzione per i notai collegiati dal requisito del possesso di una rendita di mille cinquecento ducati per poter essere conteggiati tra i nobili cittadini, similmente a quanto ottenuto dai colleghi padovani. Le cause che scaturirono da questi tentativi impegnarono il collegio per un lungo arco di tempo (dal 1724 al 1737 la prima, il 1752 la seconda) ma lo videro comunque soccombere in entrambi i casi21.
Le relazioni tra il collegio notarile e la città di Udine erano complicate anche dal particolare rapporto della città col Parlamento della Patria del Friuli, istituzione di età patriarcale mantenuta dal dominio veneziano che, tuttavia, ne aveva progressivamente impoverito le attribuzioni in favore del governo centrale e del luogotenente. Nel Parlamento trovavano posto accanto a quelli della comunità di Udine, anche i rappresentanti di altre città friulane e dei giusdicenti feudali, numericamente prevalenti e da sempre interessati ad evitare ogni occasione di predominio del capoluogo nei loro confronti. Agli occhi di costoro il collegio notarile doveva identificarsi con Udine, quasi al punto da apparire come un’emanazione della città che, invece, cercò invece sempre di mantenere una certa distanza tra le proprie istituzioni e l’associazione. Il complicato intreccio era, per esempio, venuto alla luce attorno al 1565 in occasione dell’istituzione dell’archivio notarile quando dapprima i titolari di giurisdizioni particolari si opposero alla creazione di un unico deposito udinese per tutta la Patria, ricevendo dal Senato veneto l’autorizzazione a fondare archivi notarili locali, poi il comune di Udine ostacolò quella che giudicava un’eccessiva intraprendenza del collegio nei confronti dell’archivio udinese ed ottenne il diritto a condividere coi notai la presidenza dell’ufficio. Nel 1714, ancora, i deputati al Parlamento si opposero a che la città di Udine nominasse autonomamente il notaio incaricato di gestire il registro dei contratti, appena istituito e relativo a tutta la Patria del Friuli. Il compromesso con la città, che da parte sua non aveva affatto cercato di favorire i notai collegiati, si risolse con l’istituzione di due distinti registri: uno per la città e uno per la Patria, per quanto entrambi affidati al notaio collegiato responsabile dell’archivio notarile di Udine22. Analogamente si decise quando, nel 1750, venne istituito il registro per l’esazione del dazio del 5% su eredità e donazioni: due separati registri vennero affidati rispettivamente ad un notaio collegiato per la città e ad uno nominato dal Parlamento per la Patria23.
Per motivi d’ordine finanziario la Repubblica di Venezia seguì, dalla metà del XVII secolo e per buona parte del XVIII, una politica di vendita delle giurisdizioni particolari che ebbe come conseguenza la riduzione del numero di cause trattate presso la corte del luogotenente24. L’attività presso questa corte era essenziale per la vita e l’organizzazione del collegio notarile; non riuscendo a compensare la mancanza di lavoro in quella sede con l’acquisizione di competenze in altri uffici, il collegio si dichiarò costretto ridimensionare prima il numero dei notai autorizzati ad esercitare in tribunale, poi il numero complessivo dei suoi membri. Il primo decremento si ebbe nel 1702: il 5 febbraio il collegio deliberò di fissare in trenta il numero dei propri componenti, la città e il governo centrale approvarono la riforma nei due mesi successivi25. Con le stesse motivazioni della prima, vennero messe in atto anche le diminuzioni del 1757 e del 1766, a ventiquattro e venti notai rispettivamente26. Anche i “duodenari” vennero ridotti a otto nel 178827.
Si era ormai alla vigilia della fine della Repubblica di Venezia e durante il breve governo provvisorio imposto dai francesi (maggio 1797-gennaio 1798) il collegio mantenne un suo ruolo all’interno degli uffici giudiziari. Le cose cambiarono radicalmente dopo il giuramento di fedeltà, prestato anche dai notai udinesi, all’imperatore Francesco II d’Austria. Su incarico dell’Imperial Regio governo il Tribunale revisorio di Venezia emanò nell’agosto 1798 degli ordini relativi alla trattazione degli affari civili nella città di Udine in base ai quali ogni compito dei notai negli uffici giudiziari venne abolito a decorrere dal successivo 11 novembre28.
Il contributo si basa su: NICOLE DAO, Il collegio notarile di Udine: l’archivio e lo statuto (secc. XV-XVII), tesi di laurea in archivistica speciale nel corso di laurea in Conservazione dei beni culturali della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Udine, a. a. 1995/1996, relatore il prof. R. Navarrini.
1 ANGELO VENTURA, Nobiltà e popolo nella società veneta del ‘400 e ‘500, Bari, Laterza 1964, p. 355; Il notaio e la città. Essere notaio: i tempi e i luoghi (sec. XII-XV), atti del Convegno di studi storici, Genova, 9-10 novembre 2007, a cura di VITO PIERGIOVANNI, Milano, Giuffrè 2009.
2 Statuti di Udine del secolo XIV, a cura di ENRICO CARUSI E PIETRO SELLA, Udine, Deputazione friulana di storia patria 1930; VINCENZO JOPPI, Udine prima del 1425, in: Statuta et ordinamenta comunitatis terrae Utini MCCCCXXV, Udine, Doretti 1898, p. XXIV; PIETRO SILVERIO LEICHT, Gli statuti trecenteschi di Udine in: Studi di storia friulana, Udine, Società filologica friulana 1955, p. 243-260.
3 Biblioteca Civica “Vincenzo Joppi” di Udine (da qui in avanti: BCU) Archivio comunale antico, Annales, I, cc. 319-321.
4 ROBERTO GIUMMOLÈ, I poteri del luogotenente della patria del Friuli nel primo cinquantennio 1420-1470, in: «Memorie storiche forogiuliesi», XLV (1962-1964), p. 57-127; SERGIO ZAMPERETTI, I piccoli principi: signorie locali, feudi e comunità soggette nello Stato regionale veneto dall’espansione territoriale ai primi decenni del ‘600; GIUSEPPE TREBBI, Il Friuli dal 1420 al 1797: la storia politica e sociale, Udine, Casamassima 1998, p. 3-44.
5 Consitutiones Patrie Foriiulii deliberate a generali parlamento, a cura di VINCENZO JOPPI, Udine, Doretti 1900; PIETRO SILVERIO LEICHT, Parlamento friulano, I (1220-1420), Bologna, Zanichelli 1917-1925; IVONNE ZENAROLA PASTORE, Osservazioni e note sulla cancelleria dei patriarchi d’Aquileia in: «Memorie storiche forogiuliesi» XLIX (1969), p. 100-113; MARIA LAURA IONA, Note di diplomatica patriarcale: gli scrittori dei documenti da Pellegrino a Goffredo, in Il Friuli dagli Ottone agli Hohenstaufen, atti del congresso tenuto a Udine dal 4 all’8 dicembre 1984, p. 245-302.
6 Archivio di Stato di Udine, Collegio notarile (di qui in avanti: ASU N), b. 1, n. 1.
7 CLAUDIO POVOLO, Aspetti e problemi dell’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia. Secoli XVI-XVII, in: Stato società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII), a cura di GAETANO COZZI, Roma, Jouvence 1980-1985, p. 123-258; CLAUDIO POVOLO, Retoriche giudiziarie, dimensioni del penale e prasi processuale nella Repubblica di Venezia: da Lorenzo Priori ai pratici settecenteschi, in: L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia (secoli XVI-XVIII), a cura di GIOVANNI CHIODI e CLAUDIO POVOLO, Sommacampagna, Cierre 2004, vol. 2, p. 19-170.
8 ASU N, b. 12, n. 40; il testo integrale di questo statuto si trova anche in BCU Fondo principale (da qui in avanti: BCU Fp), ms 888/3.
9 ANGELO VENTURA, Nobiltà e popolo…, p. 345-349; AMELIO TAGLIAFERRI, Udine nella storia economica, Udine, Casamassima 1982, p. 110.
10 VENTURA, Nobiltà e popolo…, p. 357-361.
11 SIMONETTA MARIN, L’anima del giudice. Il cancelliere pretorio e l’amministrazione della giustizia nello stato di Terraferma, in: L’amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia, vol. 2, p. 171-257.
12 ROBERTO NORBEDO, Belloni Antonio in: Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei Friulani, 2. L’età veneta, a cura di CESARE SCALON, CLAUDIO GRIGGIO, UGO ROZZO, Udine, Forum 2009, p. 439-445.
13 ASU N, b. 4, n. 20.
14 FURIO BIANCO, 1511 La “crudel zobia grassa” rivolte contadine e faide nobiliari in Friuli tra ‘400 e ‘500, Pordenone, Biblioteca dell’immagine 1996; TREBBI, Il Friuli dal 1420 al 1797…, p. 81-133.
15 ASU N, b. 2, n. 6.
16 ASU N, b. 1, n. 2.
17 ASU N, b. 5, n. 23.
18 GIOVANNI PEDRINELLI, Il notajo istruito nel suo ministero secondo le leggi e la pratica della Serenissima Repubblica di Venezia, In Venezia, per Carlo Todero in Frezzaria all’insegna di s. Pietro Orseolo 1768-1769, vol. 1, p. 55-57.
19 ASU N, b. 1, n. 3; ASU N, b. 15, n. 46; BCU FP, ms 888-5.
20 ASU N, b. 1, n. 2.
21 ASU N, b. 13, n. 41.
22 ASU N, b. 15, n. 46.
23 ASU N, b. 14, n. 43.
24 FURIO BIANCO, Le terre del Friuli. La formazione dei paesaggi agrari in Friuli tra il XV e il XIX secolo, Mantova, Astrea; Verona, Cierre 1994, p. 91-95.
25 ASU N, b. 7, n. 30.
26 ASU N, b. 2, n. 10; PEDRINELLI, Il notajo istruito, vol. 2, p. 65, 137; Terminazione degl’illustrissimi ed eccellentissimi Conservatori ed esecutori delle leggi regolativa del numero de’ nodari nella città di Udine e magnifica Patria del Friuli, Venezia, per li figlioli del quondam Z. Antonio Pinelli 1777, p. 46, 61.
27 ASU N, b. 9, n. 34.
28 ASU N, b. 3, n. 19.