Nella prefazione all’edizione 1984-1987 risultava evidente il volto di una città sostanzialmente ottocentesca. Studi successivi hanno condotto l’editrice a indagare su tempi più antichi, dai quali potrebbe emergere un diverso aspetto di Udine, fornendo forse un ulteriore punto di osservazione sulla storia urbana. Oggi, come nell’Ottocento, siamo abituati a considerare come centro della città l’incrocio di due strade, rispettivamente nord-sud ed est-ovest, dove si apre piazza Libertà con il terrapieno, un tempo occupato dalle case della parte meridionale di via Sottomonte, fino al Cinquecento allineate con le mura della base del colle. Nel medioevo però il punto di riferimento era il castello con le sue fortificazioni. In alto, entro uno stretto recinto, si ergeva un palazzo, pare costruzione di tipo massiccio e, nonostante ciò, non risparmiato dai terremoti del Trecento e dei tempi successivi. Nel secolo XIV disponeva ancora di un’ampia aula destinata a convocazioni assembleari, come il parlamento della Patria.
Dal recinto era esclusa la pieve intitolata a S. Maria, fino alla metà del Duecento l’unica parrocchia della città e, come tale, svolgente le funzioni canoniche previste; per sostituirla, nel 1334 il patriarca Bertrando, compiendo l’atto pontificio di novant’anni prima, trasferì la parrocchia nella nuova chiesa, in seguito intitolata a S. Maria, sede del capitolo di S. Odorico. Sul campanile della chiesa del castello, era collocata una campana, sonata in occasioni ordinarie, come per l’avviso delle riunioni del consiglio comunale o dell’arengo, e straordinarie, come per l’annuncio del palio e per lo scoppio degl’incendi.
Certamente il terremoto del 1348 rovinò parecchie costruzioni; perciò è assai difficile identificare l’età di edifici importanti, se si escludano chiese per le quali, grazie a sapienti restauri, sono state poste in luce le antiche strutture incorporate in quelle più recenti, come per esempio il duomo. Nei borghi si elevavano varie cappelle, come S. Quirino fuori porta (le sorelle del monastero si erano rifugiate in S. Chiara), S. Pietro in villa (in Bertaldia), S. Pietro martire dei domenicani, S. Valentino vecchio, S. Leonardo e S. Lucia. I loro campanili gareggiavano in altezza con le vecchie torri, le più robuste delle quali nelle mura erano portaie. S. Maria di castello continuava a essere custodita dalla fraterna omonima, arricchita anche da Bertrando, che pure aveva potenziato la nuova parrocchia in piano.
Sul colle alcune zone erano occupate da abitatori, che vantavano un rapporto feudale antico con il patriarca. Tale relazione a poco a poco aveva perduto la sua importanza, tanto che alcune consorterie avevano abbandonato le case primitive per stabilirsi nella zona urbana. La situazione si chiarì alla morte di Bertrando, quando gli antichi habitatores, i quali già nel 1347 avevano tentato di sottrarsi al dazio del vino, rispolverando l’antico privilegio patriarcale ottenuto in cambio dell’obbligo di abitare il territorio concesso e di difendere il castello, richiamarono la cittadinanza su tale documento, ma non furono ascoltati né dagli altri cittadini né tanto meno dai temporanei occupatori del territorio. Dei feudi di abitanza a Udine si parlò a lungo, specie per alcune casate come gli Andriotti e gli Arcoloniani, che nei documenti spesso vengono definiti de Castro.
Il ‘giardino del patriarca’, la via principale del borgo S. Antonio e via Sottomonte isolavano il colle, chiuso a ponente da un muro che difendeva lo spazio degradante dal piazzale. Qui nel 1347 vi circolavano meretrici, che preoccupavano gli Udinesi circa lo spettacolo per i loro figli frequentanti le scuole evidentemente esistenti in zona.
Gradatamente i vecchi recinti di mura erano stati inglobati nel nuovo abitato, dove per dimensioni si distinguevano i conventi e forse per estetica le dimore urbane degli abati prestigiosi di Moggio, Sesto e Rosazzo, o quelle dei dignitari di curia. Con buona probabilità anche l’arredo interno vi si distingueva per la presenza di cantinelle dipinte, mobili, ceramiche, maioliche e tessuti preziosi. Fornaci extraurbane fornivano mattoni e calce. A metà del Trecento una apparteneva all’orefice Matteo e a sua sorella Maffea. Gli statuti cittadini stabilivano i prezzi cui attenersi per vendere calce, mattoni e tegole con raccomandazioni ai proprietari: et primo teneantur fulcire cives indigentes.
Era esplicitamente proibito usare il legno negli edifici urbani, anche se all’interno gli architravi erano costituiti da tronchi, che in città giungevano per il tramite delle rogge. Il legno serviva anche per le palate, come quella presso la casa del comune. Esistevano anche provvedimenti statutari contro il riuso di scandole e l’acquisto di assi nuove. Ciò significa che in partenza potevano esisterne delle vecchie, che in ogni modo si dovevano rinnovare con tegole. Analogamente era proibito ammassare (incanevare) fieno, paglia, legna secca e frasche, ovviamente per il pericolo d’incendi. A tale proposito tutti i cittadini erano chiamati a collaborare per lo spegnimento e se, a causa della partecipazione a tali operazioni, l’individuo avesse perduto i recipienti, poteva farsi risarcire dal camerario del comune e se qualcuno avesse trovato oggetti del genere, era obbligato a farne denuncia.
L’acqua potabile si attingeva ai famosi cinque pozzi e alle cisterne esistenti. Chi li lordasse, se non avesse pagato la multa prevista, avrebbe subito una delle pene più atroci: l’amputazione di una mano e di un piede. Anche le rogge e i gorghi dovevano essere protetti: non solo non si poteva versarvi alcun tipo di sporcizia, ma nei tratti superiori neanche lavare i panni. Tre macelli, diretti da pesatori salariati che obbedivano a precise norme igieniche, erano dislocati in tre punti opportunamente distanziati. Le strade, tranne il sabato, potevano essere percorse dagli animali diretti al Mercato nuovo. E d’estate per la città non dovevano aggirarsi neppure le scrofe con i loro piccoli, che evidentemente razzolavano dappertutto nelle altre stagioni. Circolavano anche i cani che, tuttavia, se di proprietà riconosciuta, era proibito uccidere. Ugualmente erano protetti dalla legge i colombi domestici, circostanza che induce a immaginare case o cortili forniti di piccionaie. Qua e là si aprivano le osterie, i cui gestori erano controllati dalla legge.
Nel secolo XV è documentata l’esistenza di osti disponibili a ospitare teutonici in affari e a farsene tramite. Alcune attività potevano risultare nocive o disturbanti per i vicini, soprattutto quelle lungo le strade e sotto i portici, come per esempio la battitura del lino, proibita dalle leggi per il materiale appena estratto dai maceratoi. Il Mercatonuovo doveva offrire un aspetto particolarmente vivace, non soltanto per la presenza del macello, ma anche per quella dei pescivendoli ben consapevoli dei propri diritti (era proibito ai privati e agli osti vendere pesci crudi). Soltanto al mercato era possibile acquistare il formaggio. Dall’insieme è facile dedurre il motivo per il quale nel Quattrocento si fosse deciso di coprire di lastre la rosta che defluiva dal mercato. Venditori e compratori di bovini, cavalli, ovini, caprini, conigli e pollame vociavano sotto le finestre delle case circostanti. Un’intera fila di portici era occupata dai pellicciai, che alla fine del secolo stabilirono di far erigere una loro chiesa intitolata a S. Giacomo, sotto la cui protezione la loro fraterna si era posta.
In Mercatonuovo erano poste anche forche e berlina, che evidentemente dovevano servire da monito per i rei. Alla giustizia richiamavano anche i praecones, gli ufficiali comunali rappresentanti della legge nella cerimonia dei passaggi di proprietà o latori di messaggi del comune all’interno o all’esterno di Udine. Avevano una speciale livrea con cappuccio e scarpe regolamentari.
Un aspetto particolare dovevano mostrare le botteghe artigiane, dove il materiale usato richiedeva apparecchiature speciali o l’uso del fuoco o dell’acqua. Sicuramente in Mercatovecchio, ormai decaduto nella funzione originaria di foro, si notava la casa di maestro Aulino, per qualche tempo affittata alla zecca patriarcale. Dal camino si diffondevano fumi densi originati dalla fusione dei metalli e da essa echeggiava il rumore prodotto dalla battitura delle monete. In questo caso chi avrebbe potuto lamentarsi? Del resto nel borgo allo stesso modo, benché in misura minore, dovevano recare disturbo diversi orefici, tra i quali a partire dal capostipite, i Lionello con diramata famiglia.
I borghi esterni di Poscolle, Pracchiuso, Aquileia e Ronchi, Grazzano e Superiori fino a metà del Cinquecento conservarono un’organizzazione che sembrava quella dei villaggi extraurbani. Anche se abbracciati dalle mura più esterne, erano costituiti da case spesso aperte verso gli orti e ospitavano animali grandi e piccoli. Al mattino un armentaro passava lungo la strada principale per raccogliere mucche, capre e pecore da condurre al pascolo nei prati esterni comuni. La storia di questi borghi, che costituivano vere e proprie vicinie organizzate, capeggiate da decani, è fitta di litigi e provvedimenti per l’amministrazione delle singole comunità. Tra i borghi esterni e il colle si estendeva il primo nucleo urbano, al quale con la concessione patriarcale del mercato era stato certificato il titolo di città.
Così si sviluppò nel tardo medioevo la nostra città, che in quel tempo si presentava come un aggregato di borghi. Quelli immediatamente sotto il colle più attivi nell’artigianato e nel commercio, gli altri più poveri e conservatori, caratteristiche che gradatamente perdettero nel trascorrere del tempo e che oggi si potrebbero a stento riconoscere dalla dimensione e dalla forma delle case di certe vie. Del resto la città ha preso il nome da un borgo esistente ai piedi del colle, oggi zona di via Rialto. Sembra in fondo che il centro comandi sempre.